/image by Joshua Held/
C’è coraggio ed impegno nelle iniziative Venice Sessions. Impegno perché si trattano temi di frontiera: questa volta il design. Coraggio perché lo si fa mettendo in connessione architetti, progettisti, direttori di riviste di design con blogger, analisti dell’innovazione ed il “pubblico” della Rete – la complessità della relazione la potete leggere qui, nel fluire dei tweet, oppure nella narrazione parallela “non ufficiale” di Gianluca o magari, giusto per affacciarvi al clima, gustatevi il resoconto auto-etnografico di Galatea.
D’altra parte, come ha detto Luca De Biase (re-twittato in giro) “questo non è un evento è 1 modo di mettere insieme le idee”. Solo per questo andrebbe avviato il processo di beatificazione di Salvo, patron illuminista dell’iniziativa 😉
Questa quindi è una modalità operativa per mettere in narrazione la cultura dell’innovazione, un momento che si propone di fare da agente catalizzatore. È questa sua natura processuale, di attivatore culturale e di alimentatore di prospettive che mi interessa di più. (Qualcuno di noi – io e lui, ad esempio- non si dimentica la troppo breve esperienza della collana Mediamorfosi Telecom/Utet che ha rappresentato un progetto di sviluppo culturale per una generazione italiana di analisti dell’innovazione mediale).
Un resoconto sintetico della giornata lo trovate scritto proprio da Luca, moderatore ed attivatore di conversazioni. Qui lascio qualche mia considerazione emersa dall’ascolto, dalle conversazioni, dalle chiacchiere durante e dopo (è “1 modo di mettere insieme le idee” ma è un modo “totale”, ti assorbe per tutto il tempo).
Ragionare oggi del design richiede a mio parere di “forzare” la natura della semantica cui siamo abituati, pragmaticamente abituati, per abbracciare tutta la portata della sua definizione: “design underpins every form of creation from objects such as chairs to the way we plan and execute our lives” (data da uno sviluppatore di Video Game come Dino Dini). Il design si occupa di sedie e corpi. Architetture e relazioni sociali. Cartelli stradali ed emozioni. E del software, quello culturale.
Ho trovato per questo particolarmente “irritativo” (capace cioè di “smuovere” e farsi domande non banali) un intervento come quello di Elio Caccavale, interaction designer al Royal College of Art,che ha posto al centro l’intersezione tra design, ricerca neuro cognitiva, etica, sociologia …
Prendiamo Neuroscope, pensato come un modo per creare (disegnare?) una nuova relazione tra ambiente domestico e laboratorio di ricerca, rendendo quotidiani complessi processi di laboratorio. È così che attraverso un microscopio connesso a un PC è possibile osservare a distanza una cultura di cellule cerebrali che crescono in remoto. Si esplorano e ridefiniscono contemporaneamente anche le relazioni tra entità umane e nuove classi di soggetti post-umani.
Oppure Lifestyle Pets, che consente di ri-disegnare animali domestici rendendoli ipo-allergenici (da leggersi alcune “perle” scritte nell’area Testimonial di persone che finalmente possono sfregarsi musetti di gatti sulla faccia). Fino ad arrivare alle forme di design del proprio figlio.
Un interessantissimo esempio riguarda il design delle emozioni e dell’etica, come nel prodotto bambola Susie smoke for two, un barattolo di vetro contenente un feto nel liquido amniotico e la testa di bambola che fuma. Fumare fa diventare giallo il liquido amniotico alterando l’equilibrio vitale del feto.
Design di emozioni per la user experience, design per la produzione di comportamenti etici. I confini vanno ampliandosi rispetto alle esigenze industriali novecentesche ed esplorano i nuovi confini delle relazioni e del postumano.
Altra suggestione che indirizza la riflessione sul design è venuta, a mio parere, da Justin McGuirck – che è direttore della rivista di culto ICON Magazine – quando ha ripreso la dimensione “artigiana” di Sennett. Craftsdesigner, potremmo dire, per sottolineare la natura di “bottega” del gesto di progettazione, di cura dettata dalle abilità e dal ragionamento più che dall’adattamento di modelli. Tradotta in termini contemporanei fa venire in mente la realtà del designer diffuso, l’appropriazione di mezzi e di metodologie da parte di un pubblico allargato che da fruitore si fa progettista. In chiave amatoriale, certo. Ma è proprio la messa in discussione dei confini tra professionalità ed amatorialità in un’epoca di UGC che ci può aprire a nuove prospettive: quando saremo designer delle nostre emozioni e delle nostre relazioni sociali. Un po’ come già facciamo quotidianamente nei social network.
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