Facebook è anche libertà di parola, possibilità di esprimersi e confrontarsi con le differenze.
Eppure quando incontro pagine come queste, con i loro oltre 3000 like, qualcosa scatta.
“L’Italia agli italiano stop ai clandestini” si presenta così:
Questa è una pagina che non intende inneggiare al fascismo nè offendere altre parti politiche. E’ stata creata solo per condividere informazioni e aforismi di un uomo che nel bene e nel male è stato protagonista dell’ITALIA! (D.Q.)
L’”uomo” lo vedete rappresentato nell’avatar della pagina.
La bacheca è un pout purri di articoli di quotidiani in cui immigrati clandestini commettono crimini, di riflessioni da blog e siti che “mettono in luce” – per usare un eufemismo – i problemi creati dall’accogliere flussi di migranti, ecc.
Niente di nuovo, se non che la visibilità connessa dei likers funge da auto denuncia per razzismo. E non da meno lo è la “campagna” che fanno circolare su Facebook con questa immagine.
Siamo abituati alle forme diverse di hate speech online, al modo che si ha di costruire attorno a narrazioni costanti modi di riconoscere e di aggregare il pensiero dell’odio, corrosivo e strisciante perché si auto legittima in un contesto (il web) che miscela natura informazionale e umore relazionale. Notizie si mischiano così con boutade, dati con opinioni che hanno per presupposto l’odio razziale.
Non sarà la prima né l’ultima pagina che genera un discorso d’odio. Magari sono discorsi che ti trovi nella timeline dietro alla leggerezza di un “condividi” che non condividi veramente, oppure hai fatto un like ad un’immagine che al momento ti sembrava “divertente”, oppure ti fai prendere dal tuo dark side e pensi sia spiritoso fare quello che diffonde cose sopra le righe. E allora sei comunque responsabile di aver fatto circolare discorsi di incitamento all’odio e quei discorsi, anche se non li hai fatti tu, portano il tuo nome, te li sei appiccicati addosso e alla tua timeline arrivano come tuoi.
I discorsi che facciamo fanno la differenza. Ma lo fanno anche quelli che condividiamo con lo sharing o i like che mettiamo. Sei esposto in pubblico, ti riconosco e ti vedo per quello che dici, condividi e liki. Non è “indifferente”. Non è “e vabbè e cosa vuoi che sia”.
La nonna dello scrittore Jonathan Safran Foer, vecchia ebrea polacca, spiega al nipote come mai lei, profuga da un campo di sterminio, affamata e ridotta allo stremo rifiuta un pezzo di carne di maiale offerto da un contadino. Non era kosher e non lo mangiò.
“Neppure per salvarti la vita?”
“Se niente importa, non c’è niente da salvare”.
E se non ci facciamo privare dalla fame e dalla disperazione dei nostri ideali più profondi, dei valori che ci rendono differenti, il minimo che possiamo fare è non accettare l’indifferenza in un luogo come Facebook dove, comunque, rispecchiamo la nostra civicness.
Non vorrei sembrare pazzo, però, condivido solo in parte l’approccio presente all’interno del tuo post che, com’è evidente, tratta un tema estremamente delicato (anche quando non direttamente collegato ai siti di social network) e già ampiamente descritto dalla storiografia. A riguardo, dunque, mi piacerebbe condividere solo un paio di riflessioni.
1) Se, da una parte, si è sempre individuato come proprietà strutturale della Rete (e dei siti di social network in particolar modo) la possibilità di rendere visibili tutte le conversazioni e, in generale, gli oggetti comunicativi. Perché, dall’altra, non possiamo mitigare il nostro approccio (spesso contaminato dall’espressione di un giudizio) a fenomeni del genere pensando magari che se tutto può essere visibile possono esserlo anche fenomeni (molto) estremi come questo? perché non siamo ancora in grado di accettare/elaborare le conseguenze di ciò?;
2) Perché un simile giudizio di condanna, se vogliamo entrare nel merito dei contenuti, non viene espresso con uguale nettezza di toni e argomentazioni nei confronti delle pagine facebook che, ad esempio, inneggiano alla morte di Berlusconi o Napolitano, al sovvertimento dell’ordinamento democratico piuttosto che all’affermazione di uno stato anarchico?…
In realtà il presupposto del mio post è un altro. Non ha tanto a che fare con i semplici linguaggi d’odio che troviamo espressi sia a destra che a sinistra e anche su posizioni individuali che non hanno a che fare con la politica.
E’ evidente che la visibilità pubblica dei contenuti presenti sul web genera la possibilità di portare ad emergere pensiero dissidente così come ammiccante, offese come opinioni anche estreme.
Quello che mi interessa di più è che spesso dentro la nostra timeline si ha come la sensazione che alcuni contenuti vengano fatti circolare (non prodotti in sé e per sé che è relativo a quanto tu ti riferisci come proprietà strutturale) senza dare troppo pesso al senso più profondo del contenuto stesso. Come quando c’è qualcuno che fa like su contenuti che inneggiano alla morte di Berlusoni o Napolitano e come nella circolazione dell’immagine di Thabo.
Insomma: lascio stare la questione giuridica che possiamo connettere alla produzione e circolazione di contenuti illegali o che violano regole e giurisprudenze; mi chiedo invece quanto molto spesso sia la leggerezza a connettere certi contenuti a profili che, magari, in fondo quei contenuti non li condividono così con evidenza.
Personalmente, condivido l’ipotesi che la leggerezza possa muovere buona parte di queste condivisioni. Come se, ancora, in fondo, ciò che vive in rete non sia vero “davvero”.
Un like costa poca fatica, e poco pensiero.
Forse il tema appare vecchiotto, ma credo che il fatto che esso possa ritenersi esaurito nel dibattito sui social media non significa che sia risolto anche nella relativa pratica.