Il livore linguistico (non solo) nei social media e la cultura woke

Nel preparare la discussione con Vera Gheno per Letture Liminali attorno ai suoi ultimi due libri, “L’antidoto. 15 comportamenti che avvelenano la nostra vita in rete e come evitarli” (Longanesi 2023) e il nuovissimo “Grammamanti. Immaginare futuri con le parole” (Einaudi 2024), mi sono reso conto di come l’evoluzione con il digitale, l’abitare in continuità online e offline, si sia accompagnata a una sensibilità culturale più affilata che si è riversata nella lingua, nelle nostre conversazioni. Sensibilità che ha trovato nel mettersi in scena delle polarizzazioni sui social media il suo palco forse privilegiato, ma non unico.

Vero è che la soglia di tolleranza sull’uso delle parole si è fatta via via più bassa, proprio mentre cresceva la consapevolezza che l’uso del linguaggio ha una funzione sempre più identitaria, relativa ai diritti e utile a una consapevole costruzione di visione del mondo. O forse proprio per questo la tolleranza per ciò che diciamo si è abbassata. O semplicemente è diventata più visibile nel discorso pubblico. Fatto sta che è forte il senso di assistere sempre di più a un livore linguistico generalizzato. E non parlo delle punte estreme di tossicità comunicativa che trovano una forma espressiva ad esempio nelle shitstorm. Parlo di quel sottile fastidio che in alcuni produce leggere una parola al femminile per una professione (architetta), dell’insofferenza per un allargamento linguistico che va a specificare l’identità (persona non binaria, persona trans) o dell’odio provato per l’uso della Schwa.

“Non si può più dire niente” è diventato un refrain ripetuto spesso dai conservatori e dalla visione della destra anche meno estrema. La “dittatura del politicamente corretto” da parte dei democratici è una – falsa – visione che restituisce la temperatura del dibattito che si è accesso negli ultimi anni. A questo si è sovrapposto più di recente la discussione attorno alla cancel culture, tema dai contorni delicatissimi, pronto ad esplodere come parte di un atteggiamento woke (detto in senso dispregiativo) da destra o come limitazione della libertà di espressione, sia da destra che da sinistra.

Il livore linguistico in epoca di social media mi pare essere un indicatore di qualcosa di più profondo che accade nella società. Prendiamo il termine woke. “Woke” solitamente si riferisce a persone che sono particolarmente sensibili e consapevoli delle questioni sociali e politiche che sono significative per affrontare il mondo secondo un punto di vista rispetto dei diritti. Tuttavia, negli ultimi tempi, alcune persone usano il termine “woke” in modo ironico o sarcastico. Questo ha portato ad una sorta di ambivalenza riguardo al termine: da un lato, ci si auspica di essere consapevoli e sensibili alle problematiche sociali, ma dall’altro si teme di essere associati al termine “woke” a causa del suo utilizzo spesso derisorio.

Il concetto di “woke” rappresenta, così, un fenomeno che riflette le tensioni emerse nell’affrontare le questioni sociali, come il razzismo e la giustizia, attraverso dichiarazioni pubbliche e prese di posizione visibili. Questa forma di attivismo politico mette in evidenza le complessità e le ambiguità che i cittadini-consumatori vivono nel desiderare di partecipare attivamente alla cultura e di lasciare il proprio segno nel mondo in modi diversi. Queste tensioni sono alimentate e complicate da vari fattori, come la ricerca di autenticità, l’influenza del neoliberalismo, il brand activism (e il rischio connaturato alle forme di woke-washing) e la reazione contro i movimenti progressisti. In questo contesto, emerge una tensione tra il desiderio di essere parte di qualcosa di significativo e il senso di impotenza o ambivalenza nei confronti della politica tradizionale. Questi sentimenti sono amplificati dalla consapevolezza dei movimenti progressisti e delle critiche che ricevono, che possono far sorgere domande sulla reale efficacia del cambiamento sociale e sulla sincerità delle intenzioni di coloro che partecipano a tali movimenti.

Per questo spesso spesso l’essere woke è tacciato di essere una forma di attivismo da Instagram, associato quindi alla superficialità e all’estetica pura. Articoli come “The Rise of the Wokefluencer” di evidenziano un crescente dibattito pubblico che mette in relazione i concetti di “wokeness”, branding, e cultura degli influencer. Queste discussioni mettono in luce come la “wokeness” sia diventata un fattore significativo nell’ambito del marketing e della self promotion, con sempre più individui che cercano di associarsi, in particolare online, a cause sociali e politiche rilevanti per migliorare la propria immagine pubblica o attrarre followers.

Le critiche alla “wokeness”, quindi, spesso si concentrano sull’accusa di inautenticità, sottolineando il legame tra l’uso dei social media per ottenere visibilità e il giudizio sulla sincerità delle proprie azioni. Credo che tutto il dibattito attorno a Chiara Ferragni, anche se sta da un’altra parte rispetto alla wokeness, sia esemplificativo del tipo di tensioni in gioco che ho descritto.

Tutto questo richiama l’attenzione sul ruolo dei social media come piattaforma principale per la promozione di idee politiche e sociali, ma anche sulla complessità di giudicare la genuinità di tali manifestazioni pubbliche di impegno sociale. Questo nodo tra visibilità online, self branding e percezioni di autenticità evidenzia le tensioni e le sfide intrinseche nell’uso dei social media come strumento per la politica e l’attivismo. Ciò che postiamo, le parole usate, diventano allora un rivelatore di qualcosa di più profondo che oggi usa il linguaggio come un alert pubblico capace di misurare la soglia della nostra intolleranza.

Un pensiero riguardo “Il livore linguistico (non solo) nei social media e la cultura woke

  1. Articolo interessante . Suggerisco, a vantaggio di chi – per formazione, opportunità avute, età o altro- ha poca dimestichezza con l’inglese e con il lessico specifico dell’argomento trattato, di tradurre in italiano i termini-chiave. Una piena comprensione del testo è sempre utile, tanto per chi concorda con le tesi affermate, tanto per chi non le condivide.

Lascia un commento