La cultura digitale ripartendo da qui (un dialogo a distanza con Sergio e Massimo)

Ne è valsa la pena. Leggetevi il post di Sergio Maistrello poi tornate qui.

La cultura internet in Italia ha una storia che si è costruita attorno a una rete di persone e progetti, di idee industriali e narrazioni editoriali. Il momento di salto evolutivo – che è quello poi della storia di tutto il digitale – è quello che nasce nel passaggio dal web 1.0 al web 2.0, cioè con il web partecipativo alimentato da contenuti generati dagli utenti.

FLASHBACK

La fase del web 1.0 è quella in cui migliaia di utenti-client si relazionano a un numero ristretto di fornitori-server per accedere a contenuti gratuiti e a pagamento secondo un modello di “broadcastizzazione” del web. Nel panorama globale è il 1995 a delimitare simbolicamente e concretamente la fase di inizio di una Internet commerciale, con una quotazione in borsa di Netscape, la nascita di motori di ricerca e i primi siti di commercializzazione di massa, come Amazon e eBay. Da qui si sviluppa la retorica pubblica delle dot-com che vedrà nel 2001 un crollo di fiducia dei mercati. In Italia è nel 1996 che assistiamo alla nascita di Arianna, primo motore di ricerca italiano, e di Virgilio, che è la prima directory italiana, con una penetrazione dell’accesso a Internet di meno del 3% delle famiglie: occorrerà aspettare il 2010 per arrivare alla metà degli italiani (52.4%, dati Istat).

Sempre nello stesso anno ha origine la prima comunità online italiana attorno al portale d’informazione Clarence, fondato da Roberto Grassilli e Gianluca Neri che provenivano da una comune esperienza nella redazione del settimanale satirico Cuore, impostazione che caratterizzò anche il nuovo progetto.

Nel 2005, con la fortunata definizione di web 2.0, si introduce, come dicevamo, un nuovo discorso sul web che viene descritto sempre più come una piattaforma partecipativa di produzione e distribuzione di contenuti da parte degli utenti.

È del 2005 il volume che Giuseppe Granieri (ciao g.g. 😦 ha scritto per raccontare la Blog Generation (Editori Laterza). Un racconto di una rete di relazioni fra persone che dicono la loro “dal basso” dei loro weblog, commentando quanto si sta costruendo online mentre lo si sta facendo. Racconta Giuseppe:

“Il processo per cui si guadagna visibilità, con un blog (ma vale per tutti i nodi di tutti i network) è l’acquisizione di link. In Rete l’accesso alla conoscenza è determinato dal numero di relazioni: più link puntano ad una pagina, più quella pagina è accessibile.
Il blog è un “point of presence” dell’individuo, che quotidianamente guadagna (o perde) consenso in base al suo comportamento, al modo in cui le sue idee sono recepite, alla sua capacità di argomentare.
Se in una chat io cambio nickname, non ho costi di “riavvio” dell’identità. Se cambio identità con un blog, devo ricominciare tutto da zero e riguadagnare tutti i link. I costi di ricostruzione di una reputazione sarebbero elevatissimi. Per dirla con Danah Boyd, “i blog sono la faccia digitale dei blogger, nel senso in cui l’avrebbe intesa Goffman”.

In Italia questa retorica trova una prima diffusione dal 2006 nella forma di auto convocazione dei BarCamp, in cui, di volta in volta, blogger e appassionati del web hanno l’occasione di incontrarsi in luoghi diversi e per trattare tematiche anche specifiche. Un primo momento di messa in visibilità e di legittimazione sociale di questa realtà emergente è rappresentato dall’interesse per il mondo accademico, con gli eventi “Conversazioni dal basso” (2007) e il “Festival dei Blog” (2008), organizzati dai Corsi di laurea in Scienze della Comunicazione dell’Università di Urbino Carlo Bo, che hanno riunito ricercatori, blogger e pubblici in giornate di confronto sui social media.

Questa realtà culturale trova un consolidamento sempre nel 2008 con la prima Blogfest, tenutasi a Riva del Garda, in cui si incontra su un palco comune tutto ciò che in Italia gravita attorno alla rete, con particolare riguardo ai blog, al social networking e alle community e che vede la sponsorizzazione principale di Windows Live e di Telecom Italia e la presenza, legittimante, del suo A.D. Franco Bernabè per un confronto con i blogger sulla nuova Italia digitale. La dimensione di mainstremizzazione della realtà del web 2.0, la sua volontà di popolarizzarsi uscendo al di fuori di una logica da addetti ai lavori, la ritroviamo nell’organizzazione, durante la manifestazione, di una serata evento in stile notte degli Oscar dedicata ai “Macchianera Blog awards”, in cui vengono premiate diverse categorie individuate da utenti che partecipano alle nomination e scelgono online i vincitori.

Nel 2009 il web 2.0 acquisisce visibilità anche nel discorso pubblico ad esempio con la traccia del tema di italiano per la maturità su “Social Network, Internet, New Media” o con l’uscita del primo numero di Wired Italia, mensile che si occupa di cultura digitale e dell’innovazione e che testimonia come questo sia un periodo di forte attenzione su questi temi per un pubblico più allargato e meno di nicchia.

Possiamo considerare questo come l’anno in cui la connessione si caratterizza come “friendship”, in cui possiamo osservare l’uscita dei social network dalla dimensione elitaria fatta da early adopters, spesso utenti della blogosfera, a favore di utenti più eterogenei. Dal punto di vista culturale assistiamo a un diffondersi nelle conversazioni quotidiane e nelle pratiche “domestiche” della realtà dei social network: si parla di amici ritrovati grazie ai social network, del fatto che il proprio edicolante ha aperto un gruppo su Facebook, del ricevere richieste di “amicizia” che mettono in condizione di dover pensare se accettare o meno, del senso di frustrazione nel sapere che una certa persona che conosci è su Facebook da tempo ma non ti ha chiesto l’amicizia, ecc. È l’arrivo dell’internet di massa.

È qui che comincia una flessione di presenza e centralità di coloro che la rete italiana l’avevano non solo abitata ma costruita negli anni precedenti. Lo dice bene Sergio Maistrello

siamo noi che abbiamo abbandonato il campo. Che non abbiamo saputo adattarci al cambiamento di scala su cui noi stessi mettevamo in guardia gli altri. Che siamo scappati inorriditi quando le masse che sognavamo hanno cominciato a invadere sul serio gli spazi residenziali della rete. Come se avessero dovuto riconoscerci qualche rendita di potere, baciare le mani ai fondatori, chiedere permesso.

FLASHFORWARD

Torniamo quindi alla domanda se ne sia valsa la pena. Sergio scrive che “Ne è valsa eccome la pena. Ha forgiato la maggior parte di noi,” io questa cosa la sento forte, insieme al senso di inadeguatezza di tutti coloro che si sono fatti da parte per l’orrore dell’internet di massa. Per non averne voluto capire la trasformazione. Per non sentirsene parte. Forse perché autocollocatisi nell’élite della rete, di quando era meglio, di quando eravamo noi… ma molte delle cose che sono poi successe, che succedono e che possono succedere per me sono figlie di quella cultura le cui radici stanno in quella che era la parte abitata della rete. È un’eredità rilevante. Non la possiamo rinnegare. La dobbiamo riconoscere. Senza abbandonarci a nostalgie o a un senso di rivalsa.

Lo dice meglio di me, come sempre, Massimo ricostruendo la prospettiva:

quella roba lì era la nicchia della nicchia, i nostri blog, gli aggregatori, i feed rss attraverso i quali restavamo in contatto, non influenzava altro se non noi stessi (oltre che i quattro gonzi dei media che sono sempre alla ricerca del nuovo fenomeno da raccontare) mentre gli strumenti di rete sociale che sono venuti dopo (in Italia quasi solo FB) quelli sì hanno modificato le prassi sociali dei cittadini. Certo a quel punto era tardi, la piattaforma perseguiva scopi totalmente differenti, gli utenti affluivano a milioni privi di qualsiasi cultura digitale, il disegno sociale di una società migliore si era rapidamente trasformato in uno scarabocchio che riproduceva la società come era allora. Ma era uno scarabocchio grande, per questo contava, per questo lo si vedeva perfino da Marte.

È vero Massimo, quella era una esperienza sociale marginale, un puntino piccolo piccolo, ma la sua traccia è stata comunque un solco nel quale è fluita molta dell’acqua che irrigava la cultura digitale, prima che i social media aprissero la diga innondando i campi.

Per questo occorre ripercorrere la strada, fuori dalle ingenuità e dai diversi ego che si sono via via sgonfiati nel tempo, perché, lo dice sempre Sergio, “È importante che cominciamo a dirci queste cose sia per fare i conti col nostro passato sia perché un nuovo salto di paradigma, ancor più gigantesco, ci sta investendo. L’intelligenza artificiale promette di far fare al sistema operativo della società quello che internet ha fatto alla comunicazione, solo qualche ordine di magnitudine più deflagrante.” lo trovo questo sguardo di una necessità estrema. Dopo il web 2.0, quello dei blog e degli UGC, l’IA di massa è il solo altro salto evolutivo che stiamo facendo (che potremmo fare) e che dobbiamo interpretare, capire, prefigurare. E, Massimo, Sergio, come sapeva bene Giuseppe, il puntino visto da lontano, se è collegato a molti altri puntini, può mostrare dallo spazio la figura viva di una cultura del digitale che può farsi diversa, anche in una realtà provinciale e familista come quella italiana.

Update

Leggete Enrico, un ottimista per il quale ne è valsa la pena.

2 pensieri riguardo “La cultura digitale ripartendo da qui (un dialogo a distanza con Sergio e Massimo)

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