LG: Sì lo so. Approfitto sempre di uno spazio che non è il mio ma che so essere adatto a ricevere certe notizie e diventare luogo di conversazione su un tema che ha la performance come quadro interpretativo e i media mondo come luogo (e viceversa, ma fa lo stesso).
In ogni caso c’è da dire che nel mese di luglio Rimini e dintorni sono stati teatro, e il termine non è scelto a caso, di una serie di eventi a carattere performativo che penso possano essere oggetto di riflessione importante e interessante per tutta una serie di questioni che chiamano in causa immaginario e media, naturalmente, ma anche le generazioni.
Altro tema che mai come ora mi è sembrato così emergente. Problemi di osservatore forse.
Cominciamo da teatro e performance.
Il festival di Santarcangelo ha proposto una serie di lavori che, oltre ad avere come filo conduttore – così ho letto in molti degli articoli sul “quotidiano” del festival – la definizione di contemporaneo, si definiscono proprio a partire dal rapporto stretto con i media e con le sue logiche, con le sue forme. Non li ho visti tutti, purtroppo, ma di quel che ho visto mi resta l’immagine di una ricerca ancora centrata sulla dinamica processuale che mi interessa parecchio.
Ma a parte questo.
Vorrei proporre a te e al tuo blog un… meta-dialogo. Non siamo critici d’arte, né tanto meno teatrali ma ci piace riflettere “mediologicamente” su quel che vediamo.
Allora comincerei a chiederti un’opinione su X [ICS] racconti crudeli della giovinezza, di Motus.
Qui, anche se magari secondo me qualcosa andrebbe rivisto, ci siamo detti che il bello sta nei livelli di lettura diversi e molto interessanti che la performance propone: il tempo (rapporto fra immagine e sonoro), il tema generazionale, l’immaginario… ti passo la palla.
GBA: Accetto volentieri e provo a rilanciare… il lavoro dei Motus X [ICS] è un lavoro sull’immaginario generazionale (questione di osservazione, ovviamente) che utilizza una dimensione audio-visiva (qui il lavoro audio mi sembra più centrale del solito) capace di sdoppiare la scena. Al centro del palco immagini in bianco e nero (di un padre e un figlio che attraversano i nuovi luoghi del contemporaneo (i “non luoghi” direbbe un Marc Augé ingenuo: aeroporto, centri commerciali, l’interno dell’automobile, le autostrade, ecc.) vengono efficacemente proiettate su una struttura metallica (credo) mentre in scena la generazione Y (un lui con basso e una lei su pattini) si muovono alle soglie dell’incomunicabilità (o della nuova forma di comunicazione?) del quotidiano. Ma il discorso che vorrei fare è un altro: il pubblico entra e trova proiettata un immagine pixellata che va componendosi stile primi videogiochi space invaders; i simboli di Batman e Robin vengono appiccicati sui due protagonisti; la musica Punk da una parte accompagna il viaggio adolescenziale; e suoni dal vivo che ricordano le sonorità dei Pink Floyd di The dark side of the moon le immagini vibranti in bianco e nero; la ragazza scivola continuamente sui pattini in puro stile ropperblader metropolitano; i due ragazzi fanno l’amore protetti/impediti dalla plastica di una poltrona/letto gonfiabile grigia, come quelle anni ’70… sono gli occhi della generazione X che osserva quella Y e nel farlo la costruisce.
Certo il tutto è costruito su dialoghi che ti fanno scivolare addosso brani di “Regno a venire” di J.C. Ballard sulle violenza di questi luoghi contemporanei, sulle figure del tardo moderno come il turista da viaggio organizzato, ecc. Ma questa è un’altra storia…
LG: Sì infatti, ho trovato i testi o meglio i loro contenuti – che liquiderei nella critica alla cultura di massa e ai consumi – anche un po’ superflui rispetto alla costruzione immaginifica ed eloquente che lo spettacolo in sé già di suo riesce a dare. Trovo la sovrapposizione fra modalità video, in relazione sincopata (?) con il suono, e la parte dal vivo ancora la forma adatta alla forma contemporanea della percezione. Dal punto di vista delle forme intendo. In una recensione molto bella di Viviana Gravano, ma discutibile in un suo passaggio anti-sociologico (che riduce la riflessione della sociologia alla “tradizione/traduzione del simbolico”), si legge che in ICS la proiezione richiama l’estetica da videogioco di prima generazione e da aschi camera con richiami alla low technology, quale atteggiamento sostanzialmente politico. Concordi?
Dal canto mio approvo comunque questa lettura, sempre di Viviana Gravano che, se non sbaglio, è studiosa di arti visive prevalentemente:
tutto il lavoro dei Motus insiste sulla medesima sigla concettuale: non provare a simbolizzare [e qui mi sembra chiaro cosa intenda], ma mostrare al vivo una struttura continua (come la metropoli continua contemporanea), orizzontale, rizomatica, che si autocostruisce a ogni tappa, e che raccoglie tutto quanto galleggia. Ne deriva un attento lavoro di giustapposizione della superficie (delle immagini, delle emozioni, dei suoni/parole) che non produce profondità ma espansione.
E poi, sì, senza dubbio ritroviamo un tema che ci interessa e che non a caso emerge da altri lavori presentati al festival: una generazione che ne osserva un’altra e così la costruisce, la definisce.
GBA: che il lavoro dei Motus non simbolizzi credo sia evidente. La carne cruda è per loro carne cruda. Rimanda a sé, al suo colore, al sangue che cola, al rapporto con la bocca, ecc. Non ti chiedi: “Cosa vuol dire?”, è esperienza sensoriale, è evocazione emotiva, è tensione continua senza risoluzione, ecc.
E il lavoro ICS è proprio di un’estetica di superficie (vedi il lavoro di Darley), attenta alle forme. Qui la “simulazione” della low tech è scelta estetica o politica, che per me è la stessa cosa. In chiave mediologica rappresenta la capacità di tradurre in immagini l’omologia tra forme del contemporaneo e strutture di potere. Credo che leggere però il tutto in chiave deleuzeguattariana – rizomatica – sia interessante, ma limitante… Con ICS ci troviamo in un terreno di frattura dei linguaggi: quello della Rete, un terreno di conflitto tra nuove forme espressive dei “nativi digitali” e i linguaggi audiovisivi della generazione ICS (e non è un caso che il lavoro tratti della generazione Y – ma anche generazione C: dei contenuti, della complessità… – pur intitolandosi ICS)… la tensione tra memoria paleo-televisiva e tensione verso le forme connettive è palpante.
La forma-rete è presente in modo continuativo con le connessione generate da hyperlink (audio)visivi generati dallo spettatore – componente essenziale del lavoro (nativo digitale o no) – che si muove dal video alla scena, che risincronizza ciò che sente e ciò che vede…
[…] Prosegue il metadialogo estivo con LG dopo la prima parte qui […]
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