Domani avrò l’occasione di discutere con diversi colleghi e con Patrice Flichy del suo ultimo libro “Le sacre de l’amateur. Sociologie des passions ordinaires à l’ére numerique”, tema sul quale, per diversi motivi, sto lavorando.
Anticipo qui alcune riflessioni che ho in corso – e che presto troverete pubblicate nel mio nuovo libro.
Quello che oggi possiamo osservare è la messa in visibilità di massa dell’amatorialità e una connessione – non solo visibile ma praticabile – fra le passioni individuali, proiettate nella produzione di contenuti originali – con tutte le sfumature del caso –, e la capacità di acquisire e condividere competenze sul sapere e sul saper fare che tolgono l’amatore da una marginalità vicaria rispetto alla produzione professionale creando un contesto adatto allo sviluppo di un’amatorialità che si professionalizza. L’amatore in tal senso, come scrive Flichy:
sviluppa le sue attività amatoriali secondo standard professionali; egli desidera, in un quadro di loisir attivi, solitari o collettivi, riconquistare intere sezioni dell’attività sociale come le arti, la scienza e la politica, che sono tradizionalmente dominate dai professionisti.
La condivisione di un sapere, di un’esperienza che ha radici nel quotidiano sembra avere prevalenza sul contenuto condiviso. Di fatto ci troviamo di fronte ad una messa in comune del gusto e alla costruzione di esperienze di prossimità. In pratica si genera un contesto in cui si creano le condizioni di possibilità per la produzione di una forma capace di riaccoppiare il vissuto e la sua rappresentazione. Le dimensioni della passione e del piacere che sono alla base della pulsione amatoriale de-contrattualizzano il rapporto con la produzione, lo sottraggono alla logica puramente economica e i percorsi di senso che si producono sono valorizzati da forme del valore che sono centrate sulla messa in comune delle esperienze, sulla creazione di legami di vicinanza e prossimità, sulla valorizzazione del versante affettivo, in pratica sul rimosso, su quegli scarti (in senso paretiano) che sono alla base di una razionalità non economicizzata.
La dimensione intima e la circolazione di produzioni verso un pubblico “prossimo”, accomunato dalle stesse proiezioni passionali e caratterizzato da una forma di consumo della produzione non necessariamente contrattualistico – fruisco di contenuti lasciati per me gratuitamente e posso condividerli con altri al di là del principio di proprietà, come molta della cultura creative commons ci insegna – crea un mélange fra linguaggi interpersonali e di massa in cui il circuito produttivo finisce per essere connesso a pratiche discorsive di commento, di giudizio, opinione, eccetera. Nell’atto di produzione è spesso co-implicata la distribuzione online da parte dello stesso produttore e la circolazione è soggetta a pratiche di re-distribuzione, filtraggio collettivo, pareri e modifiche che spesso portano a riportare i contenuti da chi li ha prodotti, affinché siano modificati, quando addirittura tali modifiche incrementali non siano lasciate ai consumatori stessi che si fanno ri-attivatori produttivi. I contenuti open e il principio della “beta permanente” rappresentano questo versante di continua possibilità di mutamento e traslazione di ciò che viene prodotto e immesso online. Il “pubblico” o “consumatore” di questi contenuti amatoriali è quindi parte costitutiva e sempre più visibile del processo: nel modello wikipedia, ad esempio, restano tracce delle modifiche successive di una voce e delle conversazioni attivate attorno alla voce stessa, così come ai processi decisionali di cancellatura o implementazione di contenuto; i contenuti soggetti a creative commons contengono diverse possibilità di manipolazione con citazione da parte di chi ha contribuito a dare nuova forma, eccetera.
Questo non significa che non esistano pratiche di copia-incolla e di appropriazione senza citazione, così come la possibilità di manipolazione furtiva, e così via. Ma non è questo il punto: quella che si crea è una realtà in cui si normalizza una cultura della condivisione che valorizza i contenuti prodotti amatorialmente attraverso le forme di prossimità discorsiva e di relazionalità agganciate al contenuto stesso. Il “valore” di un post sul un blog, di un video su YouTube, ad esempio, dipende allora anche dai commenti che lo contornano, dalle citazioni che di questo vengono fatte in altri blog, da quanto viene condiviso e rilanciato ad esempio su Facebook e Twitter e, perché no, anche dai like che riceve attraverso l’applicazione Facebook. Il contenuto amatoriale online non è mai a sé ma dipende dal contesto comunicativo più complesso ed è, appunto, all’interno di questa complessità che va analizzato.
C’è anche un versante critico della faccenda, ma di quello ne parlerò domani.