Con sarcasmo (?): “#equitalia booooom di incassi!” e cinismo “Ora ad Equitalia impareranno cosa vuol dire “dare una mano”…”
Con odio: “Speriamo ne seguano altri e che inizino a morire anche gli impiegati di equitalia. Occhio per occhio, dente per dente” e con preoccupazione: “Essere contenti che al direttore di #Equitalia sia quasi saltata un mano, è la barbarie civile. Vi prego, restiamo umani”.
Molte e umoralmente diverse le reazioni che trovate online, su Twitter ad esempio, in relazione al pacco bomba esploso ferendo il direttore di Equitalia a Roma. Un attentato rivendicato dalla Federazione Anarchica Informale.
In Rete, lo sappiamo, si diffonde una comunicazione irritata dagli eventi, che risponde in tempo reale, facendo emergere gli umori estremi, tesi tra la rabbia sociale ed il desiderio di essere rilanciati dalle audience, cavalcando le tensioni (positive o negative) del momento. Quasi un modo “irriflesso” di raccontare e raccontarsi al mondo.
Così, anche re-twittare può diventare un gesto d’odio: “RT @XXX: #Equitalia : siamo sinceri…un retweet lo faccia chi non ha pensato con una certa soddisfazione: #evvafanculovai”.
Seguire online le tracce in cui i diversi pensieri scritti sono immediatamente riconducibili a profili con nomi e cognomi fa impressione. Scorrendoli spesso trovate l’assoluta normalità della vita (palestra, amiczie, cinema) alternata alla diffusione di un proprio pensiero che taglia come una lama il mondo. D’altra parte il conflitto sociale che si gioca sempre meno nelle arene pubbliche ufficiali ha trovato in Rete una sua visibilità connessa. Spazi pubblici spesso usati come luogo di conversazione semi privata in cui le persone, da un profilo aperto, si rivolgono direttamente agli amici taggandoli sui loro pensieri. Solo che stiamo discettando del mondo al bar dello sport davanti a birra e coca mentre veniamo mandati in una potenziale mondo visione.
Diventa allora responsabilità dei singoli tracciare il confine, segnare una marcatura della cultura civica, perché attraverso le parole che diciamo – anche online – costruiamo un mondo di significati in cui siamo chiamati ad agire e di cui siamo responsabili. Per questo, al di là di tutte le polemiche che emergeranno sempre rispetto a questo modo di usare la Rete, spesso un semplice gesto, un gesto banale, come quello di defolloware ha una valenza non solo simbolica: @_arianna: Su facebook sto cancellando dai miei contatti persone che esultano per la bomba contro Equitalia”.
Parlarne servirà a non avere un “passato irrisolto” (Hannah Arendt) della Rete e a ricordarci le radici della banalità del male.
Condivido la sua analisi e da questa vorrei spingermi ancora avanti, sperando di non interpretare erroneamente quanto scrive.
Credo che il linguaggio della Rete sia un epifenomeno del linguaggio – in senso più vasto – a noi contemporaneo.
L’impoverimento della competenza e della performanza linguistica, dei singoli e delle organizzazioni tutte, condiziona indistintamente pensieri e azioni.
La violenza e l’aggressione sono oggi i tratti salienti del registro preponderante di ogni forma di comunicazione privata e pubblica, verbale e non verbale.
Non mi dilungo a raccogliere esempi dalla comunicazione politica, sportiva, famigliare e giornalistica perché ritengo che molti siano vividi nella memoria dei più.
Il male è spesso banale e la nostra sensibilità alle banali malvagità è, purtroppo, ancora insufficiente.
Ci troviamo certamente di fronte ad una modalità della parola che si fa anche “aggressione”, veniamo da un mutamento del linguaggio nei media che ci ha abituato a rappresentazioni “sopra le righe”. Ma c’è anche altro. Credo che ci sia anche la “rabbia sociale” che trova le sue modalità espressive fra ironia – più strettamente intesa – e sovraesposizione di linguaggio in pubblico.
Si tratta comunque di modi di descrizione del nostro vivere sociale che, secondo me, dobbiamo tenere in considerazione.
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