L’Italia ha bisogno di Cultural&Media Studies

Bernardo Parrella ha ragione. E’ un momento giusto per rilanciare i cultural-media studies in Italia. Stiamo visibilmente vivendo anche noi una grande trasformazione che è diffusa nella società. Le Università cominciano a sensibilizzarsi alle tematiche relative allo scenario culturale/mediale in trasformazione- anche se ci sogniamo convergenze e transdisciplinarietà come quelle ad esempio americane (non ho parlato del MIT 😉
Sono usciti studi interessantissimi sia per gli addetti ai lavori che per la società civile, capaci di mettere in prospettiva lo scenario evolutivo. Inutile dire che ognuno di noi nel suo piccolo prova a fare qualcosa, ma alcuni problemi nell’editoria italiana esistono. Ad esempio l’impossibilità – o quasi – di proporre volumi eccessivamente corposi in ambito scientifico (sarà mica colpa dell’effetto CFU Universitari riversatosi deterministicamente nelle logiche editoriali?). Lo scarso investimento delle Università nell’impegnarsi editorialmente nella produzione di cultura (rari sono i casi di press universitarie significative).
Qualche editor coraggioso e lungimirante c’è. Ma viene schiacciato dalle logiche economiche della piccola editoria o dai riflussi dell’editoria di massa.
I grandi editori – che potrebbero permetterselo -, dopo qualche sporadica sperimentazione anni ’90 sull’onda esaltante del cyber, si sono ritirati nella nicchia sonnecchiosa della pubblicazione ipernota e rara.
Di docenti interessati, di editor, di studiosi in genere, di people in networking nella logica della lunga coda, di imprenditori (anche non) culturali potenzialmente interessati ce ne sono. Ognuno di loro, come me, lavora dal basso e diffonde link, PPT, segnalazioni, lascia consigli su amazon perchè ciò che è celato emerga.
L’impegno culturale c’è. Quello imprenditoriale manca.

3 pensieri riguardo “L’Italia ha bisogno di Cultural&Media Studies

  1. rispondo perchè questi sassi lanciati nello stagno del dibattito universitario mi piacciono sempre. Lo facico senza grandi speranze, ma lo faccio. Il problema non è solo della mancanza di un impegno imprenditoriale. Raccontarcela, sebbene piacevole, non serve ad andare lontano. Il problema è che la produzione scientifica nazionale serve, almeno nelle discipline di cui qeusto blog si preoccupa, a produrre libri di testo o istant book per un briciolo di notorietà casalinga. Entrambe le attività, inutile dirlo, sono lontane dalla produzione di contenuti scientificamente e culturalmente rilevanti. L’assurda importanza che la forma libro ha nella carriera universitaria è l’inizio di questa degenerazione, l’ego ipertrofico di ricercatori trasformati in autori e la miopia di molti editori fa il resto. Con quali risultati? Pochi o nessuno, prima ancora che pessimi.
    E’ un paio di giorni che passo il mio tempo tra alcune pagine di testi dedicati ai games studies preparando un intervento. Forse è inutile sottolineare che questi testi sono unicamente il lingua inglese e che non esiste un unico autore italiano citato; a me continua a dare fstidio questa cosa, anche perchè non è limitata ai games studies. Siamo assenti dal dibattito internazionale sui media, da quello su internet e le nuove tecnologie, da quello sui games studies ecc. e non ha solo a che fare con la lingua nella quale scegliamo di pubblicare. Ha a che fare con l’accettazione che, in fondo, ci va bene così. Gli editori, almeno quelli universitari, si adattano poi anche a quello che “passa il convento”.. per quello che “chiede il mercato” ci pensano quelli stranieri.

  2. Sottoscrivo. Anche io ho pensato la stessa cosa leggendo. Gli editori sono miopi ma i “cultural students” non vedono molto meglio. Comunque penso che anche la lingua abbia la sua importanza. Nei paesi del nord europa quasi nessuno scrive pubblicazioni nella lingua nazionale.

  3. Editori, scrittori, logiche concorsuali, lingua… è ovvio che la natura del problema è “di sistema”.
    Credo però che occorra sbloccare la spirale dell’inevitabilità dell’accadere.
    Anche “illuministicamente” attraverso le pratiche vive che usiamo nelle lezioni come docenti, da lettori, quando scriviamo, quando ci relazioniamo ad editor…
    Sprovincializzare la dimensione di sistema sarebbe già un buon inizio.

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