La fine della Big Conversation. E la nascita delle small conversations: dove gli utenti social creano la loro sfera pubblica personale.

L’immaginario su cui abbiamo costruito il nostro abitare la Rete si è fondato per lungo tempo sull’idea di una Big Conversation: una conversazione allargata e inclusiva capace di coinvolgere sullo stesso piano comunicativo consumatori e brand, cittadini e istituzioni, professionisti e amatori, e così via. Oggi il senso della connessione e il significato assunto dai social media pare assumere valore anche attraverso le small conversations, una moltiplicazione di conversazioni non visibili le une alle altre che passano da quegli spazi di intimità dialogica e di piccolo gruppo rappresentati dalle app di messaggistica istantanea.

Quella della Big Conversation è un’idea (o meglio: un’ideologia) che si è diffusa a cavallo di fine millennio attraverso il Cluetrain manifesto, formato da 95 tesi (come quelle di Martin Lutero) a riprova di una volontà di riforma del modo di pensare al nostro modo di costruire relazioni – sociali, commerciali, politiche – nell’epoca della connessione digitale. Quell’apertura del manifesto all’insegna del “I mercati sono conversazioni” (tesi n°1) è stato gravido di conseguenze nel generalizzare un mood diffuso circa il diffondersi di un empowerment delle persone, capaci di entrare in un dialogo diretto con attori istituzionali ed imprese – è ciò che abbiamo cominciato a lodare come disintermediazione. Tale effervescenza si è propagata attraverso una crescente visibilità delle “conversazioni dal basso” garantita dall’accesso sempre più di massa a canali di diffusione online: dalla visibilità assunta dai blog in quegli anni fino ai social media oggi.

Il senso più profondo che la Big Conversation porta con sé è la consapevolezza che le forme di comunicazione interpersonale e quelle di massa non appartengono più a due ambiti distinti e che quindi le chiacchiere tra persone e i contenuti dei mass media partecipano a uno stesso ambiente digitale: i confini sono sfumati in modi complessi, nella simultaneità che i media digitali hanno introdotto. Il cambiamento di questa simultaneità è entrato nella nostra vita quotidiana e possiamo sperimentarlo ogni giorno attraverso la centralità che i luoghi conversazionali in Rete hanno assunto in via crescente. Per esempio nel mondo dei consumi, dove l’opinione visibile di altri consumatori – sotto forma di rating, recensioni o ricerche memorizzate dagli algoritmi delle piattaforme – orienta acquisti e gusti, dove supportiamo e ci scontriamo con i brand e le loro proposte. Oppure nella politica, se consideriamo la “densità” delle conversazioni mondiali scambiate su Facebook e Twitter a cui prendono parte cittadini, partiti, politici, giornalisti, non solo durante la campagne elettorali ma su ogni tema del giorno che entra nell’agenda, magari attraverso un tweet del Presidente americano di turno.

La Big Conversation si è talmente mainstreamizzata nei numeri e nelle forme da essersi trasformata in una condizione spesso caotica in cui la disintermediazione rischia di diventare pura retorica su cui costruire strategie di promozione e propaganda. Il rapporto “diretto” che abbiamo con una pop star o un politico su Instagram si limita solitamente all’accesso a immagini da gradire e commentare del suo quotidiano, di cui ci offre sì un accesso privilegiato ma assieme agli altri: una confidenzialità di massa. I post su Facebook sono spesso semplici condivisioni di condivisioni, senza particolari commenti e osservazioni dirette: come sappiamo, la maggior parte dei contenuti sui social media sono spesso condivisi senza essere letti: secondo uno studio di Columbia University e French National Institute, solo due persone su cinque clicca su un link e legge un contenuto.

Esistono però alcuni segnali che sembrano mostrare come tale cambiamento sia l’altra faccia della medaglia di uno spostamento consistente delle relazioni conversazionali online altrove: all’interno delle app di messaggistica. Sono segnali che evidenziano uno spostamento di baricentro nelle vite connesse dalla Big Conversation a una centralità delle small conversations, in modi sempre più costitutivi e consistenti.

Se i social media assomigliano nella pratica d’uso sempre di più a canali verticali in cui diffondere contenuti per i propri pubblici, quindi dedicati principalmente a una funzione informativa e di propaganda, di pratiche visibili di cittadinanza, l’uso crescente della messaggistica istantanea ci racconta la risposta ad un bisogno di un diverso orientamento di valore nella comunicazione, quello verso le relazioni interpersonali più dirette. Non si tratta semplicemente di contrapporre il social networking alla messaggistica, ma di un vero e proprio riorientamento delle persone rispetto a cosa siano i social media, al posto che devono avere nella nostra vita e al senso da attribuire loro.

Come racconta The Economist, “più di 2,5 miliardi di persone ha installato almeno un’applicazione di messaggistica […] molti adolescenti ora spendono più tempo sugli smartphone trasmettendo messaggi istantanei che utilizzando social network. Gli utenti di WhatsApp utilizzano il servizio in media quasi 200 minuti ogni settimana”.

In Italia, per esempio, sono 22 milioni gli utenti presenti su WhatsApp, per un  utilizzo medio al mese di 11 ore e 30 minuti, dato che è più alto fra i più giovani (si veda quanto riportato da Vincenzo Cosenza).

La natura della conversazione sta cambiando: secondo un’analisi RadiumOne l’84% dei contenuti viene condiviso dal dark social, cioè da canali privati come le email e applicazioni di messaggistica piuttosto che attraverso le forme di visibilità pubblica offerte delle piattaforme di social media tradizionali come Facebook o Twitter. Il senso stesso dei social media, di cosa sia condivisione e interazione sta mutando.

Il sociologo catalano Manuel Castells ha definito mass self-communication la particolare articolazione fra tutte le forme di comunicazione – di massa, interpersonali, molti-a-molti – in un ipertesto digitale composito e interattivo – la nostra Big Conversation – che ha caratterizzato il significato profondo dei social media. Oggi assistiamo nelle pratiche degli utenti a una reintroduzione  della distinzione fra interpersonale e di massa all’interno del senso di cosa sia social media.

Sta prendendo forma un passaggio da una – percepita e agita – interrelazione fra forme di comunicazione interpersonale e di massa che si intrecciano in modi complessi e che con-fondono pubblico e privato a una sempre più diffusa gestione separata dei due ambiti e delle due modalità di comunicazione, agevolata dall’adozione di pratiche di “cerchiamento” dei propri pubblici e dall’uso di applicazioni che gestiscano più chiaramente il rapporto con i pubblici generalisti. Anche all’interno della stessa applicazione. Ad esempio Snapchat che, nella stessa applicazione, da una parte gestisce i rapporti a due attraverso contenuti impermanenti della chat e, dall’altra, offre la possibilità di avere un canale verticale di contenuti con reazioni visibili a chi produce (la segnalazione di chi ha visto il tuo contenuto e/o le interazioni di chi ti manda un messaggio a partire da quel contenuto che hai diffuso) ma invisibili agli altri pubblici, secondo una logica propria dei mass media tradizionali.

Quello che sta mutando più in profondità è l’idea che i “contenuti social” (e le relazioni che ne conseguono) abbiano le caratteristiche con cui abbiamo imparato a usarli e pensarli. La ricercatrice danah boyd ha definito la natura dei contenuti online secondo quattro proprietàpersistenza, intesa come durata delle espressioni e dei contenuti online; diffondibilità, per indicare la facilità con cui i contenuti vengono condivisi; ricercabilità, per indicare le possibilità di reperirli; visibilità, come capacità di attivare audience potenziali che fruiscano di questi contenuti.

Le possibilità aperte dalle app di messaggistica e le effettive pratiche degli utenti, che distinguono fra fare social networking e gestire relazioni conversazionali, cambiano lo scenario. Contro la persistenza dei contenuti, stabili nel tempo, sedimentati come post in blog e status o tweet, sembra assumere valore l’impermanenza: è l’unicità dell’esperienza che puoi avere del contenuto a contare, il suo sottrarsi all’archiviazione; l’essere fruito in uno sguardo e poi dissolversi, come su SnapChat o su alcune modalità di chat supportate da Telegram.

Contro la spreadability, la propensione alla diffusione che i contenuti digitali hanno, troviamo l’unicità nel contesto. Si tratta di avere un controllo sul contenuto all’interno del contesto in cui lo si propone, senza possibilità che questo circoli e venga frainteso. O assuma valore diverso da quello che si propone di dare in quel momento. Certo all’interno di questo ambito abbiamo la necessità di “proteggere” certi tipi di contenuti – sexting, per esempio – ma anche di salvaguardarne il senso: lo mando a te che sei la mia ragazza e vale quando lo vedi. Il senso sta lì. Dopo non richiede manipolazione o circolazione e anche una seconda visione non serve, attribuirebbe altro senso. Come un’immagine sbiadita o fuori contesto, quindi fraintesa.

Contro la ricercabilità di un contenuto troviamo il valore della volatilità di un contenuto, cioè la possibilità di sottrarsi ad una stratificazione nel flusso. È un recupero della temporalità contestuale dell’oralità: valida nel qui ed ora. Scripta volant.

Contro la propensione alla visibilità di un contenuto, che si rivolge ad audience anonime – quelle dei profili completamenti aperti –, abbiamo l’affermarsi di un principio di cerchiabilità dei pubblici: il contenuto è diretto a cerchie sociali definite, a pubblici controllabili, spesso con una tendenza al valore della sincronia che nei social media avevamo dimenticato. Non è il valore del post nel blog che troviamo dopo anni facendo ricerca su Google, pensando (un po’ da inesperti) che sia stato prodotto per l’oggi, ma è il valore dell’immediatezza di un contenuto da condividere e commentare con le proprie cerchie sociali, l’urgenza di una decisione da prendere nel gruppo WhatsApp. È la frustrazione di vedere scorrere le notifiche senza poter accedere perché impegnati in altro: quel centinaio di scambi in un gruppo potranno essere riletti dopo ma, appunto, con la frustrazione di non esserci stati, con la perdita di senso tra le conversazioni che si intrecciano e che sono chiare solo nel momento contestuale del loro svolgersi.

Social media diventa quindi oggi la capacità di operare una distinzione più netta fra pratiche in pubblico di social networking e interazione con ambienti sociali più chiaramente definiti. E questo è vero in particolare per i più giovani che, nel loro spostamento di massa verso l’uso di app di messaggistica su cui passano mediamente più tempo che nelle piattaforma di social networking, qui costruiscono la loro (social) media literacy, quell’insieme di competenze e pratiche relative al digitale e alle relazioni connesse che caratterizzano le small conversations. Qui, in ambienti meno soggetti alla visibilità e al controllo degli adulti e della società in genere, in cui si operano trasformazioni di cui dovremmo parlare con loro, che dovremmo imparare ad analizzare per capire, perché, come adulti, non possiamo farcene un’idea diretta: apparteniamo a un’altra tra le loro cerchie sociali.

Leggere questa realtà attraverso i principi diversi del valore dell’impermanenza, dell’unicità nel contesto, della volatilità di un contenuto e della cerchiabilità dei pubblici, porta a osservare come le small conversations cambino alcune pratiche e il senso della connessione.

Sul piano delle pratiche possiamo osservare la tendenza dei più giovani a eccedere nei messaggi vocali che mostra la natura di queste small conversations, caratterizzate dall’urgenza del quotidiano – parlare e ascoltare è più semplice quando ci si sposta in bicicletta –; dalla possibilità di poter essere diretti e spontanei senza dover riarticolare il pensiero per mediarlo con parole scritte; dalla riappropriazione del “calore” che  la comunicazione orale restituisce; dal bisogno di ricreare una vicinanza  più corporea anche negli ambienti mediati, evitando che i testi nella messaggistica istantanea rapiscano le sfumature emotive, portando a infinite incomprensioni ed errori sociali. Insomma, producendo una qualità diversa dell’intimità senza il bisogno di essere sincroni. La differente scelta mediale – messaggio scritto o vocale – è parte stessa del messaggio, dà senso al tipo di relazione che vogliamo instaurare e al tipo di familiarità e intimità che vogliamo ricreare.

Sul piano del senso della connessione, sembra accentuarsi la tensione alla costruzione di quella che è una self public sphere, una sfera pubblica personale, curata e definita, all’interno della quale controllare il significato dei contenuti perché si condivide con i lettori il contesto; conoscendo i contorni del proprio pubblico che coincide con una cerchia sociale definibile e non solo immaginata.

La trasformazione in atto sulla natura delle conversazioni è dipendente da come il dark social e le small conversations stiano assorbendo le nostre vite connesse in termini di tempo speso online e di densità dei rapporti. Estremizzando, se i siti di social network rischiano di essere sempre più percepiti come un territorio comunicativo in cui una massa di utenti consuma temi messi in agenda da media generalisti e gruppi di interesse e sempre meno come una realtà che emerge dall’assommarsi di conversazioni e scambi orizzontali – tranne eccezioni che finiscono per restare tali – dipende anche dal fatto che quelle conversazioni si sono spostate in luoghi digitali meno visibili. Ma che contano. È all’interno di questi coni d’ombra delle conversazioni che possiamo aspettarci di trovare i passa parola più significativi, le possibilità di coinvolgimento più dense, la produzione di senso più profondo.

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