La scrittura collettiva è un tema che viene spesso messo a tema come ambito problematico della letteratura e confinato a una sorta di “gioco letterario”. Ricordo in Italia le discussioni attorno al progetto di scrittura di Wu Ming – “E poi, come diavolo scriveranno a dieci mani i favolosi cinque? Capitan Sovietico scrive un capitolo e SuperGuevara un altro? Oppure scrive tutto l’Uomo Maoista e gli altri fanno l’editing?” da Libero – e quelle attorno al romanzo collettivo Ti chiamerò Russell da cui è nato Kai Zen.
Nella scrittura scientifica l’autorialità multipla è maggiormente accettata nelle équipe scientifiche, anche quando si tratta di pubblicazioni più teoriche – ricordo la recente svolta delle Computational Social Science nell’articolo di David Lazer et al. (2009). “Social science. Computational social science.” Science, 323(5915), dove “al.” sono atri 14 autori per un totale di 3 pagine.
In Italia vige una tradizione accademica di attribuzioni che rende la scrittura collettiva nei fatti inapplicabile poiché, a fini concorsuali, deve essere chiaramente riconoscibile “l’apporto individuale nei lavori in collaborazione”, anche attraverso autocertificazione ex post – anche perché quando si pubblica nelle riviste straniere le attribuzioni di “chi ha scritto cosa” non compaiono, al limite ha senso la sequenza dei nomi che individua un primo, un secondo autore e così via.
Sono considerazioni queste che avevo bene in mente negli anni in cui abbiamo scritto collettivamente il volume “Fenomenologia dei social network. Presenza, relazioni e consumi mediali degli italiani online” (2017), frutto di un lavoro di ricerca di gruppo finanziato da un bando Miur. Oggi che il volume è uscito vorrei fare il punto del motivo per il quale ci sono quei sei nomi in copertina – sui contenuti avremo altra occasione -, del perché non sia una curatela o non sia da considerare un insieme di saggi sullo stesso tema ma un vero e proprio libro collettivo. È una questione di metodo di lavoro: di ricerca e di scrittura.
La ricerca si fonda sulle parole di 120 intervistati, rappresentativi della popolazione di Facebook, e indaga la natura fenomenica dei social network, esplorando i significati attraverso le biografie d’uso e la riflessività degli intervistati che si sono resi disponibili a parlare con noi di fronte ai loro schermi, esplorando e spiegandoci i loro contenuti.
Confrontato con altri studi dedicati a Facebook, il lavoro qui presentato rappresenta a tutt’oggi la prima grande ricerca di stampo qualitativo che si rivolge a un gruppo numeroso ed eterogeneo di utenti piuttosto che concentrarsi esclusivamente su alcune nicchie specifiche, come gli studenti dei propri corsi universitari o gli adolescenti.
Le varie unità di ricerca hanno lavorato su una distribuzione per quote nel Nord, Centro e Sud Italia tenendo conto di una equidistribuzione tra centro (comuni di Milano, Roma, Palermo) e periferia (Bergamo, Pesaro-Urbino, Cosenza). Le interviste sono state trascritte e trasferite su Dedoose, software di analisi qualitativa che ha garantito il lavoro di coordinamento tra le diverse unità condividendo e consentendo di trattare i medesimi materiali in modo collettivo.
Questo specifico progetto di scrittura a cui si sono dedicate sei tra le molte persone che hanno collaborato – e molti altri sono i prodotti della ricerca usciti nel frattempo – ha da subito preso una strada anomala per la tradizione di questo tipo di ricerca, almeno in Italia. Abbiamo fatto diversi incontri per discutere l’impianto del volume, così che i risultati emergessero attraverso un metodo che prevede una codifica a tre stadi (Strauss e Corbin 1990): aperta, assiale e selettiva. Si tratta di una procedura di analisi dei dati di tipo comparativo e generativo, che partendo da un piano principalmente descrittivo e attraverso un confronto serrato con i dati, elabora categorie sempre più analitiche sino a giungere a un livello di concettualizzazione più astratto. Visto il tipo di raccolta e analisi dei dati l’idea di scrivere collettivamente anche i risultati è stata l’unica strada possibile verso cui tendere.
La prima stesura dei cinque capitoli ha seguito un format deciso collettivamente per la struttura scientifico-narrativa che è simile in ogni capitolo e che si orienta attorno ad una gabbia abbastanza rigida che prevede: a) contestualizzazione rispetto al fenomeno e spiegazione riassuntiva dell’obiettivo del capitolo (10%); b) analisi della letteratura di riferimento per inquadrare il tema (30%) c) analisi delle interviste attraverso verbalizzazioni (50%); d) conclusioni con individuazione di uno o più concetti guida che evidenzino l’avanzamento della conoscenza nell’ambito di riferimento (10%). Se ci trovavamo in disaccordo radicale su linee interpretative non abbiamo mai mediato al ribasso, ma ricercato una soluzione interpretativa diversa, ibridando sensibilità e competenze sociologica, attingendo alle nostre diverse esperienze teoriche e mettendoci in discussione continuamente. Bisogna infatti essere tutti convinti di ciò che viene prodotto, sentirsi parte completa del processo, non pensare di avere rinunciato a qualcosa ma piuttosto di avere guadagnato qualcos’altro.
Ogni capitolo è stato affidato alla scrittura di due autori che hanno lavorato a distanza miscelando le loro specificità e attitudini, e ognuno ha rinunciato a parte della sua individualità di scrittura per farsi riscrivere dall’altro. Questa prima stesura è stata rivista poi da tre degli autori che hanno lavorato alcuni giorni assieme leggendo a voce alta e facendo spostamenti, aggiunte, ripensando alcuni passaggi bibliografici, cancellando paragrafi proponendone altri… per poi risottoporre i capitoli affinché venissero rivisti. La nuova versione è stata poi rivista ulteriormente da due autori per omogeneizzare la scrittura e la struttura narrativa, riscrivendo alcuni paragrafi, proponendo alcune scelte lessicali e scientifiche che sono state discusse via mail collettivamente… La scrittura dell’introduzione (affidata ad un autore e rivista dagli altri) è diventata il frame interpretativo della fenomenologia dei social network. Ognuno è stato editor degli altri e peer reviewer per tutto il tempo.
Abbiamo poi avuto due revisori anonimi, dell’intero lavoro a cura dell’editore e della gestione della Collana, secondo la tradizione della double-blind peer review, i cui consigli sono stati essenziali per un ulteriore fine tuning della struttura.
Rileggendone parti oggi talvolta riconosco chi ha fatto la stesura di alcuni periodi, altre volte no. La stratificazione delle riscritture e revisioni ha allontanato nello spazio della pagina l’individualità non solo del pensiero ma anche delle scelte stilistiche. E d’altra parte:
ogni impresa narrativa è un’impresa collettiva. Anche quando si scrive individualmente si è comunque il punto di raccolta e di snodo di storie ed esperienze condivise da molti
Per questo in copertina ci sono sei nomi. Per questo è un volume monografico e non una curatela o un insieme di saggi collettivi. D’altra parte per rispettare i vincoli di riconoscibilità che l’accademia italiana richiede abbiamo precisato nei ringraziamenti in fondo al volume che: “Questo volume è il risultato di un lavoro di ricerca, di analisi e di scrittura che ha richiesto un costante confronto tra gli autori ed è da considerarsi come il frutto di un lavoro intellettuale collettivo. Tuttavia per convenzione accademica si possono attribuire a” … segue attribuzione di paragrafi. Le conclusioni non le abbiamo attribuite, per lasciare il segno tangibile, al di là di norme e convenzioni, di un modo di lavorare che ci ha accompagnato per lungo tempo.
Questo metodo collettivo di ricerca e scrittura è figlio di una stagione di trasformazione della ricerca anche nelle scienze umane che consente di abbandonare un approccio individualizzato al lavoro e riconosce la validità dell’approccio collettivo, certamente dovuto anche a pressioni esterne: come la difficoltà di finanziare la ricerca che costringe a costruire progetti complessi – anche internazionali – con équipe consistenti ed esperienze diverse; o la necessità di rispettare una logica “produttiva” e di qualità che porta a competere per pubblicare in riviste con ranking elevati e con continuità che richiedono spesso di portare avanti più progetti contemporaneamente, aiutandosi a vicenda nel percorso; o anche i cambiamenti che lavorare con i big data comporta in termini di esperienze di ricerca e mole di lavoro.
Per noi è stata un’esperienza faticosa e stimolante, una continua tensione tra dare e ricevere. Ma anche una lezione di stile, di un modo di accompagnare tutto il processo di ricerca con uno sguardo collettivo permanente.