#cambiostile: la comunicazione politica che ci si aspetta

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Il manifesto di Parole O_Stili raggiunge la sua età adulta. E lo fa rivolgendosi al mondo della politica con il progetto #cambiostile.

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Parole Ostili nasce come progetto dal basso in contrapposizione alla tossicità di un ambiente comunicativo online in cui la libertà di espressione si scontra con i limiti della violenza verbale, in cui la bellezza della presa di parola si miscela con l’aggressività comunicativa. I 10 punti del manifesto si presentano volutamente come slogan di cui appropriarsi, su cui misurarsi e da discutere, volendo. Il conflitto è positivo se è sulle cose e non verso le persone: è il punto 8 del manifesto, “Le idee si possono discutere. Le persone si devono rispettare”.

È un punto di partenza, certo, non di arrivo. È un insieme di descrizioni semplici – ma non semplicistiche – per arrivare a tutti. Non sono precetti, non ha la volontà di censurare, non vuole essere prescrittivo.

È un modo di dire che a noi importa. Importa avere un ambiente comunicativo più vivibile per i genitori, i loro figli e gli educatori. Importa fermarci a pensare che nella nostra vita connessa quello che diciamo dà forma a ciò che siamo. Importa sottolineare che nella realtà discorsiva sono impliciti modelli di potere e di sapere (Foucault insegna). E soffermarci su come stiamo dicendo quello che che stiamo dicendo quotidianamente sui social media e nelle nostre relazioni mediate, importa. E, visto il numero di persone che ha condiviso e scaricato il manifesto, che lo ha usato nelle scuole e appeso negli uffici o pensando alle traduzioni in lingue diverse che ha avuto, non importa solo a noi. Da qualche parte occorre cominciare perché, per rubare le parole a Jonathan Safran Foer, “se niente importa, non c’è niente da salvare”.

Oggi il manifesto viene presentato in Senato nella sua estensione, frutto di un lavoro collettivo, che si rivolge ai politici, chiedendo loro di aderire. In questo momento sono più di 150 i politici di tutte le formazioni ad avere firmato. “Sì ma poi chi li controlla?” “Sì ma poi voglio vedere se lo rispetteranno…” vedo già scrivere in rete.

“Se niente importa…”

Sottoscrivere il manifesto significa prendersi un impegno, un impegno prima di tutto con se stessi. Poi con i cittadini. Potevano non farlo. Potevano ignorarlo, fingere che non esistesse. Noi lo abbiamo solo messo sul sito prima di lanciarlo. Il resto è stato passa parola. E metterci la faccia, letteralmente.

In un’epoca di crescita di sfiducia nelle istituzioni ripartire da un atto fiduciario mi pare un bel gesto. Io lo vedo come un atto simbolico, un modo di indicare che della tossicità dell’ambiente mediale siamo tutti un po’ più stanchi, che occorre impegnarsi a pensare lo spazio digitale in modo un po’ più consapevole, che occorre educarci ai linguaggi della connessione e dei media, normalizzandoci. E che non è “la rete”, siamo noi. Dobbiamo ripartire da noi prima che dalle piattaforme, da leggi sul “far web” che sono distrazioni di massa da vero punto nodale: la cultura. Una cultura diversa del digitale. Che ci importi.

 

 

 

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