Il coronavirus è un territorio discorsivo che non riguarda solo la medicina, la politica e i media: anche il pensiero filosofico e sociale se ne occupa. E lo fa attraverso forme al negativo, che indicano le dinamiche del potere per denunciarle, trattandole in modo omogeneo e rinunciando a un pensiero delle differenze che non schiacci i corpi sotto il tallone unitario dell’assoggettamento.
Giorgio Agamben ne scrive sul Manifesto dichiarando da subito la sua posizione:
Di fronte alle frenetiche, irrazionali e del tutto immotivate misure di emergenza per una supposta epidemia dovuta al virus corona […] perché i media e le autorità si adoperano per diffondere un clima di panico, provocando un vero e proprio stato di eccezione, con gravi limitazioni dei movimenti e una sospensione del normale funzionamento delle condizioni di vita e di lavoro in intere regioni?
Ci troviamo, cioè, di fronte alla creazione di uno “stato di eccezione come paradigma normale di governo” che si associa a un “bisogno di stati di panico collettivo” che produce l’accettazione delle limitazioni delle libertà individuali in nome della sicurezza.
L’interpretazione di Agamben è quella propria di un pensiero foucaultiano che vede la predominanza di un paradigma del controllo dei corpi e in questa direzione vanno le delimitazioni delle zone rosse ma anche la chiusura di teatri e cinema, così come l’annullamento di manifestazioni o lo svolgimento a porte chiuse, l’annullamento delle gite… Sono corpi che vengono contenuti, reclusi o meglio che molto spesso si auto-recludono – basti guardare a come alcuni comportamenti di consumo relativi all’intrattenimento hanno portato a fare scelte più domestiche – autodisciplinandosi, interiorizzando cioè lo stato d’eccezione come una nuova normalità.
Il regime discorsivo prodotto da riflessioni come queste si traduce in una forma critica che tende a chiamarsi fuori dal problema decisivo che esso rappresenta anche per la trasformazione. Come sostiene anche Jean-Luc Nancy in opposizione ad Agamben
Non bisogna sbagliare il bersaglio: una civiltà intera è messa in questione, su questo non ci sono dubbi. Esiste una sorta di eccezione virale – biologica, informatica, culturale – che ci pandemizza. I governi non ne sono che dei tristi esecutori e prendersela con loro assomiglia più a una manovra diversiva che a una riflessione politica.
Il punto è quindi abbracciare l'”eccezione virale” attraverso un paradigma che sappia, da una parte, riconoscere i meccanismi di potere insiti nel dispositivo virale e le dinamiche di infodemia che lo supportano ma che dall’altro sia disposto ad andare più a fondo nel discorso foucaultiano riconoscendo il potere performativo dei corpi. E riconoscendo come la soggettivazione sia da immaginare come un agire strutturato da ciò da cui il soggetto è agito e che al contempo, costituisce una forma di agire in grado di mutare questa stessa strutturazione – seguendo le più lucide riflessione di Judith Butler.
In questo senso dovremmo chiederci in che modo il coronavirus modella le vite, da una parte condizionandole e dall’altra rappresentando un’occasione per la soggettivazione; dovremmo indagare la costituzione dei modi d’essere dei soggetti attraverso le pratiche le forme di aggiramento e resistenza. Accanto al controllo di ordinanze e decreti troviamo infatti forme di agire dei corpi che costruiscono, anche creativamente, la loro sopravvivenza. E le troviamo nel mantenimento dei contatti tra docenti e studenti attraverso il digitale, nella diffusione di contenuti ironici e sarcastici tra web e smartphone che ha funzione antipanico, nel non rinunciare a frequentare luoghi e organizzare iniziative…

Anzi è proprio la vulnerabilità del corpo stesso a costituire il presupposto per l’agire e per costituire quell’alleanza dei corpi che sia capace di reazione allo stato di eccezione.
[…] deformato della pseudo quarantena in cui siamo costretti (su questo consiglio le riflessioni di Giovanni Boccia Artieri e Vera Gheno) – mi chiedo se questa non possa essere un’occasione per riemergere con un […]