Chiara è una donna con una spiccata sensibilità. Lo è come artista e come essere umano. È uno di quei corpi a cui la vita ha riservato più difficoltà del dovuto e l’ho vista sempre accettarlo con forza e leggerezza.
L’anno scorso, ricevendo il premio Ubu come miglior attrice/performer under 35, ha fatto un discorso bellissimo su “quei corpi che per forma, identità, appartenenza, età, provenienza, genere faticano a trovare uno spazio in cui far esplodere le loro voci” e che non possono più essere trattati come eccezioni:
Se io, con il mio corpo disabile oggi sono qui, a ricevere un riconoscimento così prezioso, è perché qualcuno da chissà quanti anni ha iniziato lentamente a smussare gli angoli di un intero sistema. Se il mio corpo è qui è grazie a tutti i maestri che hanno scelto di accogliermi come allieva anche se questo significava adattare i loro metodi ai miei movimenti. È grazie ai registi, ai coreografi, ai curatori, ai colleghi attori e performer che hanno abbracciato la specificità della mia forma. È grazie a chi inizialmente non era d’accordo e poi ha cambiato idea.
Sono quegli stessi corpi che fanno parte, in questi giorni di Covid-19, di quella narrazione tossica che la politica, gli esperti e i media “sacrifica” in nome di corpi (che si pensano) più sani, in qualche modo meritevoli di sopravvivere.
In un post significativamente intitolato “Body Count, la disabilità nella narrazione sul Coronavirus. La narrazione abilista di un’emergenza” denuncia una narrazione “senza speranza” di cui è costretta a fare parte:
Carissimo mondo, cara televisione, car* giornalist*, adorat* espert* nelle più disparate materie scientifiche, per quanto sia lodevole il vostro tentativo di dire che il CoronaVirus non è una malattia mortale e solamente per una bassissima percentuale della popolazione possa risultare letale, voi, ogni volta, concludete dicendo che a morire sarò io.
L’emergenza coronavirus è un’occasione anche per misurare il tasso della nostra umanità, per verificare quanto la comunicazione istituzionale e il pensiero pubblico possano essere o meno ricchi di pietas, capaci cioè di esprime, nel senso più autentico, l’insieme dei doveri che ogni essere umano ha verso gli altri essere umani.
Rassicurarci a scapito dei corpi più deboli, quelli di anziani, malati oncologici, affetti da problemi alle vie respiratorie, è un racconto che non dovrebbe appartenerci. Invece di stare più vicini gli uni agli altri, di avere l’occasione, in un momento di sconforto come questo, di mostrare la solidarietà che ci unisce, rischiamo di abbandonarci all’illusione di ricadere nella percentuale maggiore di chi può cavarsela, a discapito di quei numeri minori a rischio, che collochiamo già ai margini della società.
Leggo le parole di Chiara mentre scorro pagine di quotidiani, ascolto pareri di esperti nei telegiornali, ascolto le persone attorno a me… e vedo come la tossicità nella comunicazione si riproduca attraverso una semantica della salvezza che si costruisce a discapito dell’altro più debole.
Sarebbe stato bello per una volta cercare un senso più nobile in un momento effettivamente speciale. Forse si sarebbe creato un precedente illuminato, forse la cura di sé e degli altri avrebbe veramente occupato per qualche tempo il centro del mondo. E siccome sto facendo un gioco di fantasia mi piace spingermi oltre e pensare che forse il capitalismo avrebbe tremato vedendo vacillare i suoi finti corpi immortali e prestanti.
[…] questo proposito, circa la «narrazione abilista dell’emergenza», Boccia Artieri, che riporta una potente riflessione di Chiara […]
Good bblog post