CovidQuid #2: Il ruolo pubblico dello scienziato. Conversazione con Pietro Ghezzi

Ho chiesto a Pietro Ghezzi, immunologo ed esperto di medicina digitale, Professore alla Brighton & Sussex Medical School, di pensare a come la pandemia che viviamo abbia portato a riflettere gli scienziati sulla dimensione professionale e il loro ruolo pubblico.

GBA: Oggi la figura dello scienziato sembra assumere un nuovo ruolo nella dimensione pubblica che ha a che fare con la certificazione della verità. Nei talk show qualsiasi commentatore si confronta con le parole degli scienziati presenti (per lo più virologi), partendo dal riconoscimento delle loro competenze e del ruolo, riflettendo solo a margine delle loro parole – che sono parole di “verità”, portatrici di un sapere “certificato” dai dati.
Da scienziati sappiamo che il dubbio è invece al cuore del nostro lavoro, che la falsificabilità è parte del nostro metodo e che, come direbbe Popper, garantisce la controllabilità del sapere prodotto a differenza di quello non controllabile che è dell’ambito della metafisica. Ti chiedo quindi, da scienziato, da immunologo cosa ti ha insegnato questa pandemia?

PG: Quello che tutti gli scienziati, in tutto il mondo, dovrebbero avere imparato: “so di non sapere”. E che, quando usciamo dalla nostra nicchia di ricerca infinitesimamente specifica, non abbiamo certezze assolute e spesso il nostro lavoro non “indica la via”. Che la cosa più preziosa che possiamo trasmettere è la metodologia scientifica (che non è nemmeno lei monolitica). Un immunologo può dirti come il sistema immunitario impara a produrre anticorpi o i linfociti T ad uccidere le cellule infettate, utile per disegnare un vaccino, ma questo non mi da nessuna autorità per dire se sia meglio il confinamento poliziesco all’Italiana, quello policing by consent all’Inglese o il laissez faire Svedese. Un immunologo non è un esperto di salute pubblica e sarei ridicolo se mi atteggiassi a tale.

GBA: Recentemente hai riflettuto su come “in assenza di evidenze robuste e di un consenso, le varie autorità sanitarie nazionali stanno decidendo politiche sanitarie su basi incerte”. Secondo te questo vivere nell’incertezza quale rapporto costruisce tra medicina, popolazione e istituzioni?

PG: L’idea che si possa essere governati da tecnici e scienziati, di cui cantava Gaber negli anni ‘70 in “la presa del potere”, non è compatibile con l’incertezza. Questo sottolinea l’importanza di politici che capiscano la scienza sottostante agli aspetti di salute pubblica e che sappiano prendere decisioni anche quando gli scienziati sono in disaccordo sui possibili modelli, sull’utilità o meno delle mascherine ecc. E i politici devono resistere alle pressioni irrazionali dell’opinione pubblica che, a seconda dei casi, può chiedere a gran voce il confinamento o la riapertura, per panico, disperazione o perché in un paese vicino fanno così. D’altro lato, il fatto che non ci sia un consenso scientifico (come ad esempio c’è sui vaccini) permette ai politici di scegliere gli scienziati che suggeriscono quello che meglio si accomoda alla loro teoria politica.

Oggi affrontiamo l’incertezza delle teorie scientifiche con, ad esempio, la sperimentazione clinica per stabilire l’efficacia di un farmaco. Dobbiamo renderci conto che anche le decisioni di politica sanitaria sono soggette ad errore. Fra sei mesi probabilmente sapremo quale sia stata l’efficacia di questa o quella misura presa, esattamente come ci vuole tempo per sapere se un farmaco è efficace o meno.

GBA: Parliamo di informazione, visto che uno dei tuoi ambiti di ricerca è relativo alla diffusione e alla selezione di contenuti scientifici online. È evidente che il terreno della polarizzazione informativa e dei meccanismi della disinformazione – sul web ma non solo – si è spostato in questi giorni su un terreno in cui contenuto scientifico e dinamiche politiche si ritrovano accomunati Quali pensi siano i problemi in questo senso?

PG: Vorrei lasciare da parte Trump e la candeggina o le teorie sui telefonini 5G; le fake news ci sono sempre state, vedi gli untori e Manzoni. Quello che attribuisco specificamente al Web è il fatto che nel dibattito scientifico si siano trasferiti alcuni fenomeni tipici dei social: cancel culture, politically correct, insulti, politicizzazione. Anni fa si diceva che la chemio fosse di sinistra e la terapia Di Bella di destra. Ora il confinamento è considerato di sinistra e la riapertura di destra, l’idrossiclorochina di destra ecc. Questa è un’invasione di campo della politica che avvelena il dibattito scientifico e porta a scegliere una ipotesi in base alla fede politica anziché alla ragione. Un ricercatore che oggi avesse un’ipotesi nuova o eterodossa si deve guardare bene dall’esporla perché, per via di questo corto circuito, rischia che la sua ipotesi venga cannibalizzata e adottata o rigettata acriticamente e senza dibattito. Se posso dire, mi pare che questo coinvolgimento politico degli esperti mutati in influencers sia più vistoso in Italia che all’estero, con epidemiologi che parlano di economia, immunologi di epidemiologia ed economisti di virologia.

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