
Si sentono molte cose in questi giorni che hanno visto il DDL Gelmini approvato alla Camera e in votazione caotica al Senato. Alcune cose sono vere. Altre controverse. Le abbiamo vissute tutte assieme. In un vorticare di sensazioni che ci accompagnano al Natale con uno spirito un po’ diverso.
Ho sentito di ricercatori rinunciare a tenere i corsi che amano fare per sottolineare la contraddizione tra uno status giuridico che non prevede che insegnino (per questo sono “dott-“ e non “prof.”) e una normativa che li fa “contare” nei requisiti quantitativi e qualitativi necessari per fare esistere i Corsi di Laurea. Ho sentito di colleghi associati ed ordinari che si sono rifiutati di tenere i corsi rifiutati dai ricercatori per salvaguardare il loro diritto. Ho sentito di Presidi di Facoltà bandire i corsi rifiutati dai ricercatori, anche a 0 euro di compenso. Ho sentito di professionisti, assistenti disperati, gente che passava di lì fare domanda. Ho sentito di presidenti di corsi di laurea rifiutarsi di mettere a bando i corsi rifiutati dai ricercatori nel primo semestre. Ho sentito di ricercatori che non prenderanno i corsi neanche nel secondo semestre. Ho sentito di ricercatori che hanno rinunciato a lottare per la modifica del loro status giuridico in cambio di pagamenti per i corsi tenuti.
Ho sentito di finanziamenti ordinari da dare alle Università che sono legati all’approvazione di una legge – quasi fossero straordinari – e ho sentito del rischio di molti Atenei di finire in bancarotta. Ho sentito di finanziamenti sottratti alle Università pubbliche a favore di quelle private.
Ho sentito di corsi di laurea con 5 iscritti e anche meno che vengono mantenuti aperti e di corsi di laurea con molti iscritti chiudere per l’assenza di strategie da parte della governance degli Atenei. Ho sentito anche di Università telematiche che vengono pensate come il futuro di un certo modello di università.
Ho sentito di borse di studio tagliate drasticamente e ho sentito di studenti già iscritti e meritevoli di borsa dover rinunciare al sogno dell’istruzione universitaria e tornarsene a casa.
Ho sentito di precari – borsisti, assegnisti, contrattisti… – di cui quasi nessuno ha parlato. E li ho visti sentirsi abbandonati anche da chi protesta. Ho sentito di una spaccatura che si è generata fra studenti, precari, ricercatori a tempo determinato, ricercatori a tempo indeterminato e docenti: come se fossero da parti diverse della barricata.
Ho sentito sputare sentenze sulla formazione universitaria italiana generalizzando situazioni diverse e non ho sentito l’Università rispondere puntualmente alle accuse.
Ho sentito spacciare come un’innovazione il lavoro di insegnamento dei docenti che la riforma introdurrebbe quando molti di noi quei carichi di lavoro li fanno da anni, spesso superandoli. Non ho sentito parlare di obbligo della ricerca – se non come vincolo minimo di pubblicazione epr adeguamento degli stipendi – quando è la ricerca la vera risorsa dell’università e del Paese.
Ho sentito di un Ministro della Repubblica che ha detto che “la cultura non si mangia” e ho sentito che la Costituzione italiana ha tra i principi fondamentali un articolo, il 9, che dice “La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica”.
Ho sentito di studenti che sono saliti sui tetti e sui monumenti ed hanno occupato le Facoltà e ho sentito di studenti che hanno tranquillamente continuato le loro lezioni.
Ho sentito che la tensione sociale sullo stato dell’Università ha prodotto scontri violenti di Piazza e ho sentito di studenti che hanno regalato fiori ai poliziotti e pacchi agli extracomunitari.
Non vorrei che le ragioni della riforma si riducessero alla riforma della Ragione.