Normalizzare la cultura

Occorre riallineare oggi il dispositivo di diffusione culturale intervenendo sulla relazione tra produzione e consumo.
In particolare è il finanziamento pubblico che può (deve?) operare in questa direzione ripensando se stesso in una direzione che ribalta il senso dello sviluppo sinora sostenuto.
Non finanziamo sul lato di chi produce ma su quello di chi consuma. Andiamo allora a lavorare sulle audience, finanziando la televisione e sulle scuole, finanziando i meccanismi di comprensione culturale e di stimolo per l’interesse dell’oggetto “cultura” e anche per la forma di produzione dal basso.

Questa – per me – è la proposta di Alessandro Baricco uscita dalle colonne de la Repubblica. Non prendiamola come una provocazione. Non noi. Non da qui.

La Rete ci ha insegnato che ci troviamo oggi di fronte ad una mutazione della relazione tra chi produce (cultura) e chi consuma (cultura) che è orientata alla convergenza, cioè ad una realtà nella quale le audience/consumatori/cittadini entrano nelle conversazioni, producono contenuti autonomamente o intervenendo con pratiche di remix mashup ecc. su contenuti esistenti: sono cioè in grado di piantar piccoli chiodi capaci di produrre (anche) grandi crepe che portano major, aziende, governi a doversi confrontare, ripensare, rimodellare.

Vi sembra allora così insensato dire:

Oggi non avrebbe più senso pensare alla cultura come al privilegio circoscritto di un’élite abbiente: è diventata un campo aperto in cui fanno massicce scorribande fasce sociali che da sempre erano state tenute fuori dalla porta. Quel che è importante è capire perché questo è successo. Grazie al paziente lavoro dei soldi pubblici? No, o almeno molto di rado, e sempre a traino di altre cose già successe. La cassaforte dei privilegi culturali è stata scassinata da una serie di cause incrociate: Internet, globalizzazione, nuove tecnologie, maggior ricchezza collettiva, aumento del tempo libero, aggressività delle imprese private in cerca di un’espansione dei mercati.

E ancora:

i confini si sono spostati. Chi oggi non accede alla vita culturale abita spazi bianchi della società che sono raggiungibili attraverso due soli canali: scuola e televisione. Quando si parla di fondi pubblici per la cultura, non si parla di scuola e di televisione. Sono soldi che spendiamo altrove. Apparentemente dove non servono più. Se una lotta contro l’emarginazione culturale è sacrosanta, noi la stiamo combattendo su un campo in cui la battaglia è già finita.

Dobbiamo rovesciare molte logiche di senso che hanno regolato il mercato culturale e disegnato il circuito culturale moderno.

Dobbiamo farlo se vogliamo dare la possibilità alla creatività dal basso di poter entrare nel circuito culturale. Se vogliamo, d’altra parte, che la produzione culturale venga normalizzata nei circuiti di massa. Se vogliamo uscire dalle logiche elitarie e di protezionismo lezioso che identificano sapere e conoscenza come beni di nicchia.

Lo snobismo per il pubblico, per i meccanismi di coinvolgimento di massa, per i linguaggi di emozionalità collettiva, il vanto dell’essere antitelevisivi… hanno prodotto una realtà culturale asfittica perchè sganciata dalla realtà dei consumi (culturali) contemporanei.

Per chi si occupa poi di formazione – come direbbe Vespa dell’inutile formazione – nelle Scienze della comunicazione diventa cruciale trovare una sponda culturale in questo paese che lavori sul riallineamento tra cultura e bisogni nella società civile, a partire dalla consapevolezza che l’intelligenza delle moltitudini abita mondi culturali (e può sostenere realtà della cultura) diffusi, non ambienti recintati e appesantiti dai polverosi drappi della modernità.

3 pensieri riguardo “Normalizzare la cultura

  1. Chissà forse adesso “essere antitelevisivi” può voler dire essere “anti” una certa televisione che si orienta a un pubblico che non è come lei pensa. O non solo per lo meno.

  2. @lgemini: la tua considerazione è giusta. ma io pensavo all’antitelevisivo come atteggiamento snobistico verso quella massa. Eppure la tradizione televisiva italiana (anche se con eccesso pedagogizzante) ha lavorato alle origini sull’intrattenimento di massa policulturale.

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