La puntata di Report intitolata Il prodotto sei tu è dedicata a sondare il rapporto fra la nostra sovraesposizione in Rete e lo sfruttamento dei nostri dati identitari e gusti a fini di mercato (potete rivedere la puntata qui):
Milioni di Gigabytes delle nostre informazioni personali scalpitano per uscire dai corral delle fattorie di server californiane. I nostri nomi e cognomi, indirizzi, numero di cellulare, gusti, preferenze sessuali e d’acquisto, vogliono correre liberi nelle praterie della Rete dove i pubblicitari non vedono l’ora di prenderle al lazo e Facebook ha il compito di trattenerli. Ma ci riesce sempre? E Google, cosa sa di noi e cosa se ne fa delle informazioni che raccoglie? Condividere è facile anche su Youtube, dove gli Italiani cliccano i video un miliardo di volte al mese e può succedere che qualcuno condivide la roba tua anche se non te lo saresti mai aspettato. Come si fa a difendersi? E come si evitano le trappole che i criminali allestiscono per derubare gli utenti di Facebook quando cliccano il tasto “mi piace”?
Molto in linea con le tesi di Tu non sei un gadget di Jaron Lanier (di alcune tesi ho già parlato).
L’attesa nella Rete nostrana ha mostrato qualche perplessità preventiva. Infatti qualcuno su Twitter commenta: “#Report non ancora in onda ma leggo già parecchi cinguettii perplessi…” e qaulcun altro “Non capisco: si parla sempre bene di #report, la volta che si parla di FB e twitter, tutti hanno pregiudizi e dubbi prima ancora che inizi..”
Le reazioni in Rete durante la diretta (bastava seguire la conversazione su Twitter) e quelle del giorno dopo hanno messo in luce una costruzione della puntata che ha prodotto una melassa di temi, spesso con salti logici adatti a puntare l’attenzione sul conosciuto (cosa c’entrava il passaggio abbastanza lungo su wikileaks qualcuno me lo deve spiegare). Scrive ad esempio, forse esagerando un po’ Matteo Bordone:
Report ha descritto Facebook come un servizio quasi pubblico, che raccoglie surrettiziamente dati personali, li gestisce vergognosamente a scopo di lucro, è deficitario sotto il profilo della sicurezza, attinge in tutti i modi ai conti dei propri utenti. Accanto a questa impostazione, suffragata dalle opinioni di autentici sconosciuti, legati a gruppi, organizzazioni e progetti che io non ho mai sentito, ha anche parlato di truffe online, phishing, spam, furti di identità.
La verità è che la melassa era amalgamata per reggere il mood della trasmissione, per far sentire lo spettatore nel frame riconosciuto.
Scrive ad esempio Edoardo Poeta in una nota su Facebook:
Scritta con lo stile di Report per obbedire al patto comunicativo che ha con i suoi pubblici, i quali si attendono di “scoprire” sempre qualcosa di sconvolgente o straordinario. Insomma, detta più sinteticamente, ha applicato i criteri di notiziabilità tipici della trasmissione della Gabanelli all’argomento social network e non solo (è stato infilato di tutto nel servizio).
La tesi di fondo è corretta, vale la pena ribadirlo, ed è che il contenuto interessante in Rete siamo noi. Lo siamo per quella capacità che ha avuto il web di declinarsi in chiave sociale, rendendo essenziali e visibili le nostre relazioni sociali, portandoci a condividere non solo contenuti ma le informazioni su di noi connesse a questi contenuti (gusti, emozioni, dati…) e consentendo di monitorare queste informazioni e renderle disponibili per il mercato. È la stretta relazione fra Rete e liberalismo economico che viene mostrata. Come hanno detto in puntata “Convertire l’adesione entusiastica in guadagno”.
Ma forse questo lo sappiamo già, dice la Rete italiana. In un commento sulla pagina Facebook di Report leggiamo ad esempio:
Dopo tutti gli argomenti interessanti trattati dalla trasmissione devo dire che questa sera si sta parlando del nulla.. FB è oramai una realtà, tutti noi sappiamo che quello che pubblichiamo viene utilizzato per scopi pubblicitari, ognuno di noi credo abbia il buon senso di scegliere cosa pubblicare.. di quale scandalo stiamo parlando scusate??
Oppure su Twitter: “Dai, vogliamo fare gli ingenui? Siamo sorpresi di quello che stanno dicendo di google e facebook? Maperfavore. #report” e ancora “@JJ__R luoghi comuni che spaventano i poco avvezzi alla rete e indignano chi invece lo sa usare…il digital divide che avanza #report”.
E in questo sta forse proprio il senso di quello a cui abbiamo assistito. Abbiamo visto la messa in scena della distanza rispetto alla cultura digitale fra il pubblico della Rete e quello televisivo. Abbiamo visto come il capitale culturale sul digitale, quello da giocare nella quotidianità, si strutturi su una differenza di potenziale che rimette in gioco paure ed entusiasmi, visioni pseudo apocalittiche alternate alla semplice banalità legata alla capacità di gestire il proprio modo di abitare la Rete.
Ecco, quello che mi preoccupa di più è questa distanza, quella che mostra che molto ancora c’è da fare in questo paese per colmare il divario, divario che ha necessità di trovare il linguaggio adatto per costruire una cultura digitale comune.
UPDATE:
“Una cosa approfondita per quelli della Rete, si fa in Rete. Se io vado sulla TV generalista mi guarda anche la signora Cesira e io devo essere in grado di spiegare anche a lei. La TV generalista non è la Rete e quindi il popolo della Rete deve portare pazienza se abbiamo usato un linguaggio semplice per spiegare cose da addetti ai lavori. Bisogna fare anche questo sforzo, se no ci sono dei soggetti che parlano solo tra loro e il resto del mondo che rimane fuori“
Giovanni, mi permetto di dissentire, parzialmente ma nettamente: non si è misurata tanto la distanza tra rispetto alla cultura digitale tra il pubblico della rete e quello televisivo, ma la distanza sempre esistente tra i soggetti coinvolti personalmente in una vicenda/argomento (in questo caso specifico gli “abitanti” della rete) e la narrazione giornalistica della vicenda stessa. E’ il noto meccanismo ogni-volta-che-scrivono-qualcosa-di-cui-mi-intendo-non-mi-ci-riconosco.
In parte è inevitabile ed è dovuto alla necessità di sintesi/generalizzazione della narrazione giornalistica e la difficoltà delle persone coinvolte di osservare il proprio mondo in maniera, appunto, sintetico/generale.
In parte è tuttavia evitabile con una cura più netta del prodotto. Purtroppo il prodotto Report – pur il migliore del giornalismo tv italiano – ha da sempre difetti strutturali che in questo caso si sono resi evidenti anche a un pubblico solitamente amichevole. In particolare:
1) mancanza di notizia o anche “tesi” chiara e definita con evidenze valutabili.
2) accorpamento di questioni, fatti, eventi, personaggi che hanno poco o nulla a che vedere gli uni con gli altri, ma sono unificati da un generico “argomento” (in questo caso: “i pericoli di internet”)
3) una unitarietà del racconto, di conseguenza, definita non dalla tesi e dagli elementi a sostegno, ma dal tono generale sul preoccupato/denunciante.
Risultato, spesso e volentieri: una reazione tipo “signora mia qui è tutto un magna-magna”. O, in questo caso: “signora mia internet è una cosa proprio brutta”.
Aggiungo, così ci capiamo meglio: una tesi o notizia definita con elementi a sostegno può essere falsificabile, cioè almeno teoricamente validata; un giornalismo evanescente che non riesci ad acchiappare da nessuna parte, invece no.
Capisco che è un problema che riguarda tutto il giornalismo e – forse – Report meno di altri prodotti, ma resta un problema serio.
Guarda, Mario, concordo con te sull’analisi del problema giornalistico… la messa in scena a cui mi riferisco è, invece, quella relativa a chi abita quotidianamente la Rete e vede le ingenuità in cui possono cadere le persone (“ma per molte cose basta saper gestire la privacy del profilo”) e il pubblico più generale che viene (mal) socializzato a questa realtà.
Guardandolo non mi sono irritato per la scarsa capacità di sintetizzare un mondo che conosco (è ovvio che sia necessaria una traduzione) ma della “traduzione” utilizzata … e anche il fatto che “la distanza” culturale sia molto evidente e ci che c’è molto da fare …
Mario, capisco quello che dici, ma come ho detto da più parti – e lo ripeto qui unicamente perchè penso sia la sostanza del problema, una cosa è SEMPLIFICARE, altra cosa è TRAVISARE. Facebook che sembra “nascosto” in una viuzza londinese (e invece nello stesso palazzo ci sono la sede della Ferrari, della Nike ed altre grandi aziende); l’evidenza che viene data al fatto che c’è – udite udite – un tritadocumenti (c’è anche nel mio ufficio… allora?); il tono da scoperta della cospirazione. Capisco che possa essere la “cifra stilistica” della trasmissione. Ma travisare la realtà – davvero – mi pare ben altra cosa…
Vale riflettere sul fatto che anche quando trattano altri argomenti usano lo stesso metodo. Solo che per noi è meno evidente…
Bravo Stefano, è proprio così: Vale riflettere sul fatto che ANCHE quando trattano altri argomenti USANO lo stesso metodo!!!!!!!!!
Concordo pienamente! Ogni volta che hanno trattato argomenti a me ben noti, ho potuto verificare la stessa sensazionalistica superficialità nel fare apparire demoniaca qualunque cosa.
[…] L’opinione di Galatea […]
Report parlando delle truffe informatiche, della spregiudicatezza nell’uso dei dati personali ha informato su uno dei lati oscuri del web. Nelle obiezioni dei guru del 2.0 ci si è per lo più limitati a fare delle accuse di allarmismo e terrorismo senza però entrare nel merito di quanto detto dalla Gabanelli. Il miglior modo per liberarsi dei rischi della rete è farli consocere, non metterli sotto silenzio.
Report, i rischi dei social network e le critiche pelose dei guru del web.
La puntata di Report, se non altro, ha avuto il pregio di farci parlare ancora e ancora di Internet, ma soprattutto dei rapporti fra la rete e la tv. Rapporti mai risolti, complicati, densi di stereotipi di reciproci snobismi e paure (ne scrive bene leonardo qui: http://leonardo.blogspot.com/2011/04/television-serious-business.html )
C’è un ulteriore aspetto, seguendo il ragionamento di Mario, che c’entra fino a un certo punto con la rete e che costituisce uno dei difetti strutturali di Report, vale a dire l’assunto che se qualcuno ha guadagnato molto, ciò implica inevitabilmente che sotto ci sia il male. Nell’articolo http://www.kataweb.it/tvzap/2011/04/09/il-prodotto-sei-tu-report-sui-social-network-160330/che precedeva il servizio c’è proprio questo assioma. Zuckemberg ha guadagnato x, Page e Brin y = vi stanno derubando.
Ora, non vorrei entrare in questioni troppo grosse, ma dal mio punto di vista mi pare che questi due casi non siano tra i peggiori del capitalismo. Persone che hanno innovato, rischiato e costruito, pure in giovanissima età, rispondendo a un bisogno reale. Sinceramente se riescono a guadagnarne non mi scandalizza (certo, le cifre fanno paura). Mi vengono giusto in mente qualche decina di bastardi che ci hanno realmente derubati per arricchirsi e li abbiamo omaggiati pure per anni e anni…