Dopo due settimane piene di lezioni online all’Università degli Studi di Urbino Carlo Bo tento un veloce bilancio.
Oltre il 70% dei corsi del semestre (439 insegnamenti) è online tutti i giorni con uno streaming video e condivisione di materiali. Abbiamo toccato le punte di 3.000 utenti connessi contemporaneamente al minuto e oltre 10.000 che ogni giorno, da 300 città italiane, partecipano alle attività online. Poi ci sono quelli che si rivedono le lezioni o le scaricano (sono registrate, comprese le chat di discussione). Ricevimento su moodle per chiarire o rispondere a dubbi.
E le studentesse e gli studenti? Salutano quando ci connettiamo “buongiorno prof”, ringraziano quando finiamo, fanno domande in chat o voice… come mi ha detto una collega: “sarà che sono dietro uno schermo ma interagiscono molto di più che in classe… e sono educatissimi”.
Non so se sia lo schermo che protegge, l’abitudine ad interagire attraverso gli schermi che hanno o il clima di “gratitudine” (non trovo termine migliore) che si è creato attorno a questa nuova routine della didattica.

Io so che ringrazio tutte le volte che chiudo una connessione i nostri tecnici che ogni giorno monitorano l’andamento, intervengono e di sera potenziano i server. E ringrazio gli ospiti che ho avuto e che avrò nelle lezioni e che mi regalano il loro tempo per approfondire il tema del giorno. E devo ringraziare le ragazze e i ragazzi della classe che durante la prima lezione hanno coniato l’hashtag #coronalessons per descrivere quello che facciamo ogni giorno. Il mio è un corso di Sociologia della comunicazione e dei media digitali e quindi ci offre l’occasione di interpretare quello che sta accadendo a proposito del Covid-19 nei legacy e social media e di trarre spunto da questa realtà per approfondire in che modo teorie e approcci dei media possono permetterci di capire meglio.
Durante queste due settimane docenti di altre università (non importa quali) mi hanno chiesto suggerimenti e consigli perché: a) le loro università non erano attrezzate; b) i sistemi adottati all’atto pratico non funzionavano o funzionavano male (ad esempio non reggevano una classe anche di poche persone); c) non avevano dato nessun orientamento preciso; d) le università avevano consigliato di condividere contenuti ma non avevano ancora immaginato come far fare didattica.
Ed è normale. Per quanto siano moltissime le Università che hanno repository per contenuti o fatto esperienze di distance learning è solo sotto questo momento che fa da pressure test che si confronteranno con le problematiche reali. E sono certo che nelle prossime giornate ci saranno accelerazioni significative che daranno concretezza agli slogan dell’Università che non si ferma. Il 9 marzo abbiamo presentato, in un webinar, potenzialità e difficoltà organizzative e psicologiche della didattica all’epoca del coronavirus alla Conferenza dei Rettori delle Università Italiane (CRUI).
La nostra Università non è sotto la lente dei quotidiani nazionali come altre, perché territorialmente più vicine ai grandi editori o perché mega atenei, quindi forse non ne sentirete parlare, così come invece leggerete di altri progetti, magari ancora in fieri. Ma io sono felice di stare in un’Università che ha risposto in tre giorni con un progetto di massive learning in cui abbiamo reimmaginato la comunità universitaria attorno al digitale.