Di un certo giornalismo cut&paste

Parlare di Facebook è fashion, anzi fa tanto mainstream. E come capita il problema, come al solito, è di far si che l’opinione pubblica si faccia un’idea a partire da dati ed opinioni di esperti – l’esperto è un selettore tipico del sistema dei media. E farlo a qualunque costo.

Se no non capisco come su la Repubblica si possa citare dana boyd contro dana boyd.

Mi spiego. In un articolo sugli effetti collaterali di Facebook, uno di quelli “a tesi”, si dice così:

Secondo Danah Boyd, ricercatrice presso la School of Information dell’Università di Berkeley, i social network non solo favoriscono l’ansia ma disabituano alla vita reale: “Andiamo verso una società di persone sempre più goffe e meno abituate a confrontarsi. Scrivere una frase ogni tanto è più facile, ecco perché si accettano anche amici che non si considerano tali”.

Ora , chiunque abbia letto i lavori di ricerca sa che le interpretazioni di db mostrano il mix che si crea tra vita “reale” e “virtuale” (direbbero i giornalettisti) e che la complessità di gestione dei rapporti con i “Friend” ha a che fare con la complessità della costruzione dell’identità nei social network.

Eppure è interessante come il pensiero possa essere utilizzato da un giornalismo cut&paste in modi funzionali all’approccio sotteso al pezzo, fingendo una neutralità del giornalista che scrive.

Update: cose di cui parla dall’altra parte dell’oceano anche Bernyblog.

Update2: ecco, a conferma, cosa pensa l’interessata sollecitata da Fabio Giglietto:

danah-boyd

4 pensieri riguardo “Di un certo giornalismo cut&paste

  1. E’ pur sempre “Repubblica”, quelli che, giusto per citare u nesempio, son cascati come pere nella storia dei gattini bonsai dopo anni che era stata ampiamente sputtanata; non ci si può aspettare molto.
    Non credo ci sia mala fede, ma semplice (e comunque grave) superficialità, incapacità, ignoranza o almeno disinformazione tipica di certi periodici, unita al solito stupido sensazionalismo.

  2. Fateli laureare in scienze della comunicazione, i giornalisti attuali e futuri, anziché dar loro una cultura vera, e soprattutto fateli laureare in tre anni secchi a 110 + lode facendo loro credere che col minimo sforzo si ottiene tutto

    e otterrete (avete già ottenuto) “giornalettisti”, come poi li chiamate, con zero cultura e zero senso del lavoro in profondità.

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