Network pragmatism ed ecosistema dell’informazione

Luca De Biase ha scritto un importante post per mettere a fuoco alcune mutazioni e rischi del sistema dell’informazione al tempo dei civic media. Anche in contrappunto ad alcune riflessioni di Gianni Riotta.
Trovo però che il limite di molti dei ragionamenti che facciamo attorno al contesto attuale sia che cerchino di trasporre le caratteristiche moderne dell’informazione, il modo di produrre-distribuire-consumare nato con i mass media, all’interno di un ambiente in cui la forma dell’informazione impatta e collide con le dinamiche relazionali che avvengono nello stesso luogo: cioè il fatto che la relazione fra forme di comunicazione interpersonale e di massa si è riarticolato attraverso forme di accoppiamento nuove.

Si tratta, inoltre, di un contesto in cui troviamo anche la presenza di quei media di massa che fanno informazione. Social curator e redazioni stazionano assieme su Twitter, giornalisti e amici che segnalano news li abbiamo, magari, tra i nostri friend. E anche i contesti informativi che creiamo, come i quotidiani online, generano la realtà da cui, nel dibattito, vorremmo allontanarci. Ad esempio scrive Riotta:

Sui primi due giornali italiani, Repubblica e Corriere, i video più visti online questo sabato comprendono la ragazza che si tuffa nel lago e sbatte il sedere perché è gelato, la scema che fa la capriola e cade dal letto, il fusto che solleva 150 chili e sviene, il reporter sfiorato da un aereo e la cliente infuriata che devasta il locale perché il panino non le piace troppo.

Possiamo concentrarci sulla gente che sceglie l’intrattenimento dentro un contesto informativo o su chi (la testata) inserisce in un contesto informativo video come questi. Una circolarità da cui difficilmente usciremmo.

La realtà è che molte delle critiche che si stanno producendo echeggiano ancora le posizioni di Andrew Keen presentate nel suo saggio “The Cult of the Amateur” – tradotto in “Dilettanti.com” – dove viene denunciata la “grande seduzione” che sta generando un punto di vista superficiale sul mondo prodotto da

un puro e semplice rumore generato dalle centinaia di milioni di blogger [ma aggiungete pure persone sui social network] simultaneamente impegnati a parlare di sé stessi.

Si tratta di una tagliente critica generalizzata che colpisce la generazione UGC, così come le pratiche di citizen journalism, la realtà della wikinomics, ecc.
E qui veniamo ad un primo punto. Internet rischia di generare differenze senza valore per cui sulla crisi asiatica il Nobel Amartya Sen è sullo stesso piano del suo anonimo aguzzino via blog. Occorrerebbe allora, sostiene Riotta, “riportare gerarchia di valori (il bene migliore del male), autorevolezza di tesi (il Nobel Amartya Sen la sa più lunga sulla crisi asiatica del suo anonimo aguzzino via blog), limpidezza di discussione”
Il “pragmatismo digitale” punta il dito sulla dittatura del dilettante, dell’anonimo, che si impone su quella dell’esperto e dietro alle apparenze di una disintermediazione capace di democratizzare i processi conoscitivi e produttivi nasconde un’ideologia, quella del web 2.0, che in realtà propone una forma di appiattimento del mondo e di svaporamento dei valori che tengono insieme processi educativi, conoscitivi e produttivi. Si tratterebbe di una miscela di tecno-illuminismo e principi libertari, quelli propri delle ideologie che stanno alla base di molta vulgata sullo sviluppo di Internet, che tende a valorizzare l’esistenza dei mercati di nicchia eliminando la fondamentale funzione degli intermediari culturali – ad esempio i giornalisti professionisti, gli editori, le case discografiche  – a favore di una big conversation su ogni argomento, quando in realtà abbiamo a che fare con, come scrive Keen, “milioni e milioni di scimmie esuberanti […] che stanno dando vita a una foresta infinita di mediocrità”.

Al di là di tutto, la polemica culturale su questi temi tiene sveglia l’attenzione critica rispetto ad atteggiamenti di esaltazione delle virtù salvifiche del web partecipativo. Eppure la logica di fondo che contrappone il valore dei media tradizionali e delle figure professionali istituzionalizzate ad un disvalore deterministicamente prodotto dall’amatorialità diffusa di massa nel web, non mi convince fino in fondo.

Ad esempio gli obiettivi di un regista e la macchina industriale di massa che sta alle sue spalle e quelli di un teenager che carica un video su YouTube con l’intento di intrattenere gli amici sono, ovviamente, diversi e non in competizione. Quando però ci troviamo di fronte ad un servizio con contenuto giornalistico prodotto dal basso, con riprese, ad esempio, da una zona di guerra o con la messa online del video “Morti collaterali” da parte di Wikileaks, denuncia anonimizzata rispetto alle fonti, in cui si vede l’uccisione da parte dei militari USA di una dozzina di civili – compresi due membri di Reuters – in Iraq, allora la realtà che stiamo valutando si fa un po’ più complessa. Oppure se pensiamo alla distribuzione di contenuti su blog e Twitter della rivoluzione Verde in Iran non possiamo pensare di liquidare in modo semplicistico gli UGC. Logiche relazionali e forme dell’informazioni si connettono in modi complessi.

E anche quando si pensa alla realtà dei contenuti online come ad una melassa indifferenziata di mediocrità, con la difficoltà di selezionare non avendo più efficaci intermediari culturali e, quindi, ad una conseguenza deterministica sulla cultura nei termini di un appiattimento, forse si generalizzano meccanismi che in realtà funzionano diversamente.

Un secondo punto ha quindi a che fare con la capacità di selezione ed il rischio di omofilia, per cui tendiamo ad incontrare contenuti incapaci di produrre differenze rispetto al nostro modo di pensare, meccanismo dovuto sia a come operiamo personalmente che attraverso motori di ricerca come Google – come scrive Eli Pareser “dal 2009 vediamo i risultati che secondo il PageRank sono più adatti a noi, mentre altre persone vedono cose completamente diverse. In poche parole, Google non è più uguale per tutti”.
Quello che è certo è che la strada aperta dall’interconnessione tra contenuti e relazioni sociali è da considerare un punto di non ritorno e anche una delle forze del web sociale. Il fatto che questo si traduca in un principio generalizzato di selezione per cui «posso incontrare solo ciò che possono incontrare e non posso incontrare ciò che non posso incontrare» è, invece, qualcosa che non necessariamente dobbiamo accettare.
Sul lato della selezione una prima risposta può provenire dalle nuove forme di intermediazione collaborativa tra professionisti ed amatori che, non dissolvendo il processo di mediazione, in realtà mostrano nuove e complesse forme di collaborazione e di co-dipendenza. Saper costruire una rete efficace in cui la sintesi e il trattamento dell’informazione è prodotto da un mix fra diversi “curatori” più vicini e distanti da noi in termini di friendship, miscelando così dimensione emotiva e conoscitiva dell’informazione, diventerà una necessità.

Sul lato dell’omofilia dobbiamo imparare a non accettare il fatto che «non sappiamo che non possiamo incontrare ciò che non possiamo incontrare» in termini informativi. Spesso alcuni comportamenti di ricerca di informazione aprono alle differenze rispetto ad altri: pensiamo a quello che emerge quando seguiamo il flusso di un #hashtag. Dobbiamo ripensare la rete in modo consapevole come un luogo in cui dobbiamo preservare la serendipità, riconoscerla, sperimentarla e pretenderla, ad esempio nella progettazione di interfacce – che oggi tendono a segnalare ciò che è “simile a te”.

Per questo alla fine concordo con De Biase che “I commons culturali hanno bisogno di comunità consapevoli. Attive. Colte.”. E con Riotta che occorre “Riportare sulla rete quei canoni di serenità, autorevolezza, vivacità, impegno, buona volontà, dibattito, critica che sono da sempre trade mark della libertà, dell’onestà, della ragione. Senza perderne la ricchezza, la spontaneità, l’uguaglianza”.

Ma per farlo dobbiamo cominciare a pensare la Rete attraverso parametri culturali diversi da quelli che hanno caratterizzato il ‘900 che siano in grado di tenere conto del fatto che la relazione fra forme di comunicazione interpersonale e forme di comunicazione di massa si è riarticolata ed ha assunto nuove possibilità di raccordo dopo che per lungo tempo ci siamo abituati a pensarle e ad osservarle come ambiti distinti e inaccoppiabili. Ecco credo che molto del lavoro che abbiamo da fare e delle cose che dobbiamo capire stiano su questo versante, in un’ottica di network pragmatism.

9 pensieri riguardo “Network pragmatism ed ecosistema dell’informazione

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